Per un dibattito serio sul suicidio assistito

L’iniziativa generica di alcuni deputati verdi per permettere ai degenti in strutture sanitarie di ricorrere al suicidio assistito, ha scatenato diverse reazioni sguaiate che sono di cattivo augurio per il dibattito che seguirà. Oso però ancora sperare che se ne potrà parlare in modo pacato, invece di copiare anche su questo tema delicato le peggiori abitudini italiane, e penso al caso Englaro. Per chiarire i termini del dibattito, comincio, a costo di ripetere cose già conosciute, col mettere alcuni paletti.

La Svizzera è l’unico Paese che permette a chiunque, purché non lo faccia per motivi egoistici (ad esempio per procurarsi un’eredità) di aiutare qualcuno a suicidarsi.

In altri Paesi, come nel caso della spesso citata Olanda, assistenza al suicidio ed eutanasia sono equiparate e permesse solo ai medici. Da noi invece l’eutanasia attiva è punita. Ma qual è la differenza? Mi spiego con un esempio. Prendiamo un’infusione contenente una dose letale di farmaci. Se è il paziente a girare la rotellina per far sì che il liquido possa entrare nella vena, si tratta di suicidio assistito e non sarò punito. Se invece sono io a muovere la rotellina, allora è eutanasia attiva e posso finire in prigione. Personalmente considero questa differenza un tipico cavillo da azzeccagarbugli e preferirei la soluzione olandese. Quand’ero in Consiglio nazionale avevo perciò richiesto, con poco successo, che l’eutanasia attiva diventasse non punibile, nei casi di pazienti talmente gravi da non essere neanche in grado di suicidarsi. La legislazione svizzera ha però un’altra particolarità. Essa richiede sì che la persona che vuole l’assistenza al suicidio sia lucida e convinta, ma non necessariamente che si tratti di malati gravi. Giuridicamente quindi il suicidio assistito è permesso anche, per esempio, nel caso di un anziano che ha deciso di mettere fine ai suoi giorni e che non vuole farlo gettandosi dalla finestra, bensì bevendo la pozione letale. Sia i sondaggi che le votazioni avvenute in diversi cantoni dimostrano che la stragrande maggioranza è contraria a rendere più severe le condizioni per il suicidio assistito.
Da noi, l’assistenza al suicidio si scontra però con due grossi ostacoli. Da una parte le strutture sanitarie non permettono, di solito per ragioni ideologiche, che venga portato a termine entro le loro mura, cosicché il suicidio assistito può avvenire solo ambulatorialmente, ciò che è spesso impossibile. Diversi cantoni (come Vaud, Neuchâtel ed in parte Zurigo) stanno però ora permettendo che ciò avvenga, purché non ci sia il coinvolgimento del personale della struttura sanitaria. L’iniziativa generica dei deputati verdi ticinesi va in questa direzione. L’altro ostacolo è rappresentato dalla posizione dell’Accademia delle scienze mediche, che sinora non riconosce ancora l’aiuto al suicidio come atto medico, anche se attualmente ne sta ridiscutendo e ha abbandonato la dogmatica proibizione del passato. Se l’aiuto al suicidio verrà riconosciuto come atto medico, al quale beninteso nessuno può essere obbligato e, se di conseguenza verrà accettata la possibilità di eseguirlo in una struttura sanitaria, allora associazioni come Exit o Dignitas, che a molti risultano sgradite, diventerebbero praticamente inutili. Personalmente ho sempre trovato inaccettabile che, dopo aver seguito un paziente per tanti anni, nel momento in cui mi domanda di aiutarlo a morire in modo umano, io sia obbligato a delegarlo ad un estraneo di Exit. Naturalmente rispetto l’opinione di chi, per convinzioni religiose, non riconosce all’essere umano tanta autonomia da conferirgli il diritto di decidere come e quando morire. Una delle caratteristiche della modernità è però l’accettazione della convivenza di diversi principi etici e soprattutto il fatto che le leggi fondamentali dello Stato non possono essere dettate da questa o da quella religione.