Le scuse in ritardo di Blair sulla guerra

di Chiara Cruciati (tratto da il manifesto del 27.10.2015)

 

Mezzo milione di morti in 8 anni di occupazione dell’Iraq, dal 20 marzo 2003 (quando le prime bombe della crociata di George W. Bush annunciarono al paese un futuro di distruzione) fino al dicembre 2011, ritiro delle truppe di Washington. Ne sono seguiti tanti altri. Difficile stimarli: organizzazioni indipendenti calcolano che dal 2012 ad oggi 224mila iracheni (160mila civili) abbiano perso la vita nella quotidianità delle violenze.

Ai morti si aggiunge la demolizione dello Stato iracheno: l’esercito non esiste più, le istituzioni sono schiave della distribuzione settaria del potere imposta dalla Casa Bianca, la ricostruzione non è mai partita, i servizi ai civili sono una chimera, la ricchezza petrolifera è preda di multinazionali e gruppi di potere. E lo Stato Islamico, che controlla un terzo del paese, ha costretto due milioni di persone a trasformarsi in rifugiati. Ma le conseguenze di quell’impresa vanno oltre i confini iracheni: arrivano in Siria, Yemen, Nord Africa, Somalia, Nigeria, nei fondali del Mar Mediterraneo. La penetrazione di gruppi islamisti, legati ad Al Qaeda o all’Isis, è figlia di un incremento innaturale dei settarismi interni, del livello di estremismo religioso, della guerra tra asse sciita e asse sunnita combattuta a suon di miliardi di dollari che foraggiano le milizie radicali.

Ad umiliare ulteriormente una popolazione — quella irachena — che vive in guerra dagli anni ‘80, punita prima con un embargo folle e poi con l’intervento militare, sono state negli anni le lacrime di coccodrillo di tanti attori di quel massacro, negli Stati Uniti e in Europa. Ora l’ennesimo mea culpa: Tony Blair, ex premier britannico che nel 2003 salì entusiasta sul carro armato dell’alleato Bush, chiede scusa: l’invasione ha provocato la crescita dei gruppi islamisti e permesso all’Isis di trovare in Iraq il terreno fertile al progetto di un nuovo califfato. «Penso ci siano elementi di verità — ha detto in un’intervista alla Cnn, alla domanda se l’Isis fosse il prodotto dell’occupazione — Mi scuso perché le informazioni di intelligence ricevute erano errate.

Se anche Saddam avesse usato armi chimiche, il programma che immaginavamo noi non esisteva. Mi posso anche scusare per alcuni errori nel comprendere quello che sarebbe potuto succedere una volta rimosso il regime». «Trovo difficile scusarmi per aver fatto cadere Saddam – ha però aggiunto – Penso che anche oggi, nel 2015, è meglio che non ci sia». Chissà che ne pensano gli iracheni. Le sterili scuse di uno dei fautori della devastazione irachena però sono a metà. La Gran Bretagna lo sa e non lo perdona: da due giorni i quotidiani inglesi, dal The Guardian al Times fino al The Independent, fustigano l’ex premier – riciclatosi come guru-negoziatore in Medio Oriente – e lo accusano di cercare la salvezza in zona Cesarini. «Ha rigettato ogni responsabilità per la più grande catastrofe geopolitica di questo secolo – scrive sul The Sun Trevor Kavanagh – Dice di non aver previsto l’inevitabile caos del post-Saddam. Ma le conseguenze erano state ampiamente discusse allora».

Scuse a metà, che colpiscono per l’assordante silenzio in merito all’inchiesta parlamentare in corso da 6 anni ma mai reso del tutto pubblico, il rapporto Chilcot. La colpa di Blair non può essere espiata perché rifugge spiegazioni sul fatto di aver lanciato una guerra nascondendosi dietro bugie, quelle ormai note sulle armi di distruzione di massa. E non chiede scusa per aver accettato di prendere parte all’impresa neocolonialista del compagno Bush molto prima del 20 marzo 2003, come rivela il rapporto Chilcot. Aveva deciso per la partecipazione di Londra all’invasione almeno un anno prima. Prima che Saddam Hussein, per bocca di Tariq Aziz, il volto dell’Iraq che piaceva all’Occidente, tentasse di evitare l’inevitabile aprendo le porte agli inviati Onu alla caccia delle armi chimiche. A rendere queste scuse inutili, se non offensive, è la consapevolezza che quella guerra era il primo dei tanti passi mossi verso una ridefinizione neocolonialista del mondo arabo, cominciata un secolo fa con Sykes-Picot e proseguita dietro la maschera della guerra al terrore. Un terrore che non è mai stato tanto prospero.