Intervista a Christian Marazzi
di Claudio Carrer
«Nel Diciannovesimo secolo si trattava di abolire la schiavitù. Nel Ventunesimo secolo si tratta di abolire la schiavitù moderna. Aboliamo il lavoro precario organizzato e sfruttato delle agenzie interinali. Aboliamo l’affitto degli esseri umani per il bene della classe operaia». È la rivendicazione che ha accompagnato l’azione di protesta, promossa e coordinata dal ForumAlternativo, dello scorso 21 marzo presso la sede di Bellinzona di Adecco, l’azienda leader mondiale del personale in prestito (o meglio «del mercato dell’affitto degli esseri umani») con un giro d’affari di 25 miliardi di franchi. Il fenomeno delle agenzie interinali «è un vero cancro dell’umanità che si diffonde nel corpo sociale in tempi rapidi», hanno denunciato i partecipanti alla contestazione, ricordando per esempio, come nel solo cantone Ticino negli ultimi 10 anni i lavoratori interinali siano addirittura raddoppiati, passando dai 5’800 del 2005 agli 11’500 dello scorso anno.
Perché si è arrivati a questa situazione? Chi sono le persone più colpite? In che modi i padroni approfittano di questo strumento? Come andrebbe affrontato il problema della precarietà del lavoro? Proviamo a dare delle risposte con questa intervista all’economista Christian Marazzi, professore e responsabile della ricerca sociale presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, nonché autore di numerosi saggi sulle grandi trasformazioni del mondo del lavoro intervenuti a partire dai primi anni Ottanta.
Christian Marazzi, chiedere di abolire le agenzie interinali, al di là del suo valore simbolico, non è come chiedere di abolire solo il sintomo di una malattia ma non la malattia, essendo esse solo uno degli strumenti del processo di precarizzazione e di flessibilizzazione del mercato del lavoro?
Non vi è dubbio che le agenzie interinali sono il sintomo di qualcosa di più profondo e strutturale. Si ricordi che in Svizzera, dove inizialmente già negli anni Ottanta si affermano in alcuni settori di nicchia, esplodono in numero e importanza verso la metà degli anni Novanta: proprio nel bel mezzo di un periodo di crisi, di alti tassi di disoccupazione e in cui le imprese si riorganizzano all’insegna della flessibilità, della riduzione del nucleo centrale di forza lavoro stabile in favore della creazione di un bacino di lavoro precario e flessibile (in termini di lavoro a tempo parziale, temporaneo, su chiamata eccetera), adeguandosi così a quelli che si stanno confermando come i nuovi scenari dell’economia globale. Un’economia in cui le imprese, per restare competitive, sono in qualche modo costrette a «respirare» con il mercato e dunque a ricorrere a una forza lavoro flessibile, sia in termini occupazionali (per disporne di un volume variabile) sia in termini funzionali, quindi lavora- tori versatili e spostabili da una mansione all’altra. Da questo punto di vista, le agenzie di lavoro interinale sono dunque sì un sintomo, ma contemporaneamente anche un dispositivo, un «braccio armato» di questo processo.
Hanno insomma subito fiutato l’affare...
Ricordo bene di aver conosciuto persone che si sono buttate in questo business appena intercettato il cambiamento in atto. Ma va anche ricordato che proprio in quel periodo (dal 1996 in poi) gli stessi uffici di collocamento, a gestione pubblica, tendevano a esternalizzare il collocamento proprio alle agenzie interinali, rendendole così funzionali non solo all’economia privata ma anche allo Stato, che le sfruttava come elemento di agevolazione del reinserimento nel mondo del lavoro complementare alle misure messe in atto dallo stato sociale.
L’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro rappresenta un’attività d’interesse pubblico e come tale dovrebbe rimanere nella sfera di controllo dello Stato. Anche qui c’è stata una sorta di privatizzazione?
Erano gli anni della svolta neoliberale nelle politiche economiche e fiscali. Le agenzie interinali sono state organiche a questo progetto e dunque si sono anche inserite subito nella prospettiva di una crescente privatizzazione, del diritto del lavoro stesso in un certo senso, diventando un protagonista, un soggetto attivo nel mercato del lavoro. L’espansione delle agenzie interinali riflette insomma l’accelerazione in senso neoliberista ed è un sintomo della precarizzazione, ma anche della privatizzazione del «governo del lavoro», dunque dell’affermazione del primato dell’economia sui diritti sociali.
Di regola tendono a presentarsi come trampolino di lancio nel mondo del lavoro, transizione dalla disoccupazione al lavoro stabile, canale d’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Solo un’illusione?
Su questo genere di promesse si sono solo costruite (e in certi casi hanno funzionato) ma poi si sono affermate e sviluppate come datore di lavoro saltuario e intermittente, come un’interfaccia tra domanda e offerta compatibile con il nuovo modo di produrre postfordista in cui la domanda è quella di lavoratori temporanei.
Si calcola che in Svizzera «solo» il 6.5 per cento della forza lavoro ha un’occupazione temporanea. È un dato realistico?
È un dato che va letto con attenzione, perché in questo 6.5 % non ci sono sempre le stesse persone, il che significa che il fenomeno della precarietà tocca una popolazione molto più ampia. E poi si deve tenere conto anche del fatto che non tocca solo i soggetti direttamente implicati ma tutte le persone che ruotano loro attorno, la famiglia e i parenti in primis. La precarietà attraversa insomma l’intero corpo sociale.
Secondo un sondaggio realizzato nel 2014 da swissstaffing, l’organizzazione padronale mantello delle agenzie interinali in Svizzera, il 55 % dei lavoratori temporanei lo sono contro la loro volontà e il 45 % per scelta. D’altro canto 8 su 10 sognano il posto fisso e 1 su 5 è temporaneo da almeno tre anni. Se ne deduce una grande difficoltà a uscire da questa condizione. Il lavoratore temporaneo permanente è una figura che si sta imponendo?
Certamente. In alcune realtà aziendali la percentuale di lavoratori interinali raggiunge livelli molto elevati, direi di guardia. In Ticino abbiamo avuto per esempio il caso delle Officine di Bellinzona. Del resto, il lavoro interinale è stato anche pensato per creare tensioni e divisioni all’interno della forza lavoro. E poi c’è un elemento strategico in termini economici: proprio perché il lavoro interinale si fonda sulla promessa o la speranza del posto fisso, chi vive questa condizione, perlomeno nel primo periodo, cerca sempre di dare il meglio di sé per dimostrare di essere all’altezza, a volte con effetti in termini di produttività anche importanti. Il lavoro interinale è insomma anche uno strumento per produrre di più, cioè per fare più profitto, senza dover offrire nulla in cambio, come per esempio la stabilità del posto.
Provando a tracciare una sorta di profilo del lavoratore interinale, balza all’occhio che in Svizzera quasi un terzo svolge mansioni ausiliarie e solo il 2 per cento assume funzioni di quadro, nonostante il fatto che il 20 per cento degli interinali abbia una formazione accademica o professionale. Come si spiega questa apparente contraddizione?
Il sempre maggiore coinvolgimento delle fasce medie e alte dal punto di vista formativo nel lavoro interinale è una peculiarità svizzera che discende dal nostro sistema formativo duale [cioè l’apprendistato, che coniuga l’apprendimento pratico, presso un’azienda, alla formazione teorica e generale in una scuola professionale, ndr], che riguarda il 70 % dei giovani. La necessità di accumulare esperienza lavorativa e recuperare ciò che è mancato durante lo studio obbliga molti neo-diplomati a compiere degli stage per sperare di entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro. Stage che tra l’altro sempre di più si stanno trasformando in fasi di lavoro gratuito. I dati indicati dimostrano dal canto loro come la flessibilità, con la complicità delle agenzie interinali, venga utilizzata per abbassare il valore di questa forza lavoro.
Come si pone la Svizzera nel confronto internazionale?
Il lavoro atipico è ormai una caratteristica mondiale, ma in Svizzera si registrano percentuali record di lavoro part-time e al cui interno ha un’elevata percentuale (più di due terzi) di persone sotto occupate, cioè che vorrebbero lavorare a percentuali superiori. In Svizzera il lavoro flessibile sta ormai diventando un lavoro tipico. L’atipicità sta diventando normalità.
Come si potrebbe immaginare di contrastare la flessibilità e i suoi effetti?
Voglio proporre una riflessione. Essere flessibili significa essere in grado di dosare tra tempi di attesa e prestazione puntuale per cui si è pagati. Ed essendo il tempo di attesa un presupposto per ottenere un lavoro, esso andrebbe preso in considerazione nella determinazione del costo della prestazione puntuale, ma ciò non avviene. Per il frontaliere per esempio, la pendolarità è una condizione fondamentale, ma non viene in alcun modo considerata. Bisognerebbe riuscire a far passare l’idea che la flessibilità presuppone l’attesa (cioè l’inattività) e che questa andrebbe iscritta nel tempo di attività, perché rappresenta un periodo di maturazione in cui si acquisiscono delle competenze, che spesso sono quelle che contano di più in ambito lavorativo e sono estremamente strategiche in un mondo globalizzato e basato sull’imprevedibilità. Credo dunque che sia fondamentale tener conto di questa dimensione per elaborare delle strategie rivendicative che permettano di valorizzare il lavoro flessibile in quanto tale. Bisognerebbe in particolare cominciare a riflettere su un’assicurazione generale del reddito.
Ti riferisci a una sorta di reddito di cittadinanza o incondizionato?
Qualcosa che vada in quella direzione. Si tratta di garantire la continuità dei diritti sociali, attraverso un reddito garantito o un’assicurazione generale sul reddito che permetta concretamente di andare al di là dell’indennità di disoccupazione (che a sua volta non è più sufficiente perché tante volte non c’è nemmeno il tempo per maturarne il diritto) e remunerare dei tempi produttivi benché di inattività.
Questo contribuirebbe anche a rendere il lavoratore meno ricattabile e dunque a combattere un fenomeno come il dumping salariale...
Esattamente. Uno dei «capolavori» del post-fordismo è stato quello di indebolire, di «sfarinare» la classe operaia in senso classico, di scomporla in una pluralità di figure contrattuali, paracontrattuali ed extracontrattuali. Un’operazione che ha reso estremamente difficile anche il lavoro sindacale di costruzione di fronti di resistenza e di rivendicazione, perché la forza negoziale e la capacità di organizzazione della classe operaia è automaticamente venuta meno. Credo che questa situazione sia un motivo sufficiente per andare nella direzione di un’assicurazione, non per legittimare la precarietà e i suoi generatori, ma piuttosto per aumentare il potere contrattuale dei lavoratori. Perché è chiaro che chi si trova in una situazione lavorativa (e di riflesso anche esistenziale) precaria è pronto ad accettare salari anche umilianti. Non dimentichiamo che il termine «precarietà» deriva dal latino «prex, precis» che vuol dire «preghiera», «supplica»: «precarizzare» significa dunque piegare a una condizione servile coloro che pure sono fondamentali per la produzione e per la creazione della ricchezza sociale.