Riforma costituzionale: a rischio la rappresentanza democratica*

di Luciana Castellina

 

Non so se in Europa ci si è resi davvero conto dell'importanza della partita che con il previsto referendum del prossimo autunno si sta giocando in Italia. Dovrebbe, con il Sì, ratificare la riforma della Costituzione proposta dal governo Renzi e già approvata dal parlamento, o bocciarla con il No. Una scadenza importante per capire dove andrà l'Italia, ma anche quale è destinato a essere il futuro della democrazia nel nostro virtuoso continente.

Troppo difficile spiegare nei dettagli la riforma proposta, cui è collegata una riforma del sistema elettorale, questa sì, invece, chiarissima: un premio di maggioranza spropositato al partito (neppure alla coalizione) che arrivi primo, anche se questo traguardo è costituito da una percentuale inferiore al 30% dei voti. Detto in poche parole il senso di quanto viene proposto stravolge l'intenzione della nostra Legge Fondamentale, mossa nel dopoguerra dalla preoccupazione di evitare quanto era accaduto, in Italia così come in Germania, dove fascisti e nazisti arrivarono al governo non con un colpo di stato ma grazie a regolarissime elezioni.

 

Capimmo allora che democrazia non è semplicemente conquistare la maggioranza in un parlamento, ma garantire i diritti e le garanzie di chi è minoranza, di salvaguardare la dialettica necessaria a mantenere aperto un confronto e prevedere i mutamenti che ne possono scaturire.

Purtroppo la tendenza attuale, ma non solo in Italia, ripropone invece l'idea di un potere quasi assoluto a chi conquisti la maggioranza, privando l'opposizione di ogni possibilità di operare per un'alternativa.

Dico che la questione non interessa solo noi italiani, perché – come spesso è accaduto nella storia – l'Italia è stata spesso anticipatrice di fenomeni che poi si sono estesi altrove: è qui che si è inventato il capitalismo, e, ahimè, anche, precocemente, il fascismo. Oggi rischiamo di tornare a svolgere un ruolo da pioniere. Del peggio.

L'obiettivo è di ridurre drasticamente i contenuti della democrazia, in nome di una governabilità intesa come accentramento di ogni funzione deliberativa nelle mani dell'esecutivo, e parallelamente di svuotamento del Parlamento.

Si tratta di una tendenza che viene ormai da lontano, dal 1973, quando emersero i primi segni della crisi economica che scossero gli equilibri stabiliti dall'accordo di Bretton Woods. Quando fu fondata, a Tokio, ispiratori Kissinger e Rockfeller, la Trilateral, il patto fra gli allora tre big del mondo: Stati Uniti, Giappone e Europa. Eravamo all'indomani degli anni ribelli, che avevano portato il movimento operaio a grandi conquiste in occidente e i popoli colonizzati nel terzo mondo alla lotta per l'indipendenza; e la Trilateral annunciò che si era sviluppata troppa democrazia, che il sistema non poteva permettersela. L'economia, aggiunsero, era cosa troppo complicata per esser lasciata nelle mani dei parlamenti. In una parola alla politica, che da allora è stata via via sempre più marginalizzata.

Oggi, per esprimere il concetto, si ricorre sempre più alla parola «governance», che non è la traduzione in inglese della parola governo, bensì tutt'altra cosa: la sostituzione della sovranità popolare con l'amministrazione dei tecnici, esperti così detti neutrali. Insomma un CdA, come per le banche o le imprese.

L'idea di una gestione amministrativa anziché politica è ormai penetrata a tutti i livelli, a cominciare dall'Unione Europea, dove il grosso delle decisioni che contano hanno una origine extraparlamentare. Un'usurpazione da parte di un esecutivo sempre più potente e incontrollato, che ha portato, in particolare dall'inizio della crisi del 2008, a una valanga di decisioni ufficialmente amministrative, di fatto di enorme portata politica.

Sarà, per noi italiani, una battaglia durissima, sebbene il Fronte del No sia rappresentato dal fior fiore dei giuristi, dall'ANPI, da larga parte della CGIL, dall'ARCI, da tutta le organizzazioni a sinistra di un Partito democratico ormai a sua volta svuotato di ogni dialettica e interamente nelle mani di Matteo Renzi. Durissima perché il governo sfrutta l'anti-politica cresciuta nel paese, presentando la riforma come si trattasse solo dell'abolizione del Senato e dunque una mera semplificazione dell'apparato, un risparmio rispetto alle inutili chiacchiere di assemblee legislative che si diletterebbero a far perdere tempo ai cittadini. Una campagna massiccia, che usa spregiudicatamente il potere mediatico su cui ha preso un controllo quasi totale: le recentissime nomine alla RAI sono lì a provarlo. Esse hanno peraltro portato anche all'allontanamento della direttrice del TG3, Bianca Berlinguer, che aveva osato protestare per l'uso bugiardo del nome di suo padre da parte di Renzi.

E tuttavia qualcosa si muove anche in positivo. L'Italia ha una società civile ancora dinamica, che sia pure in modo frammentato – e dunque poco visibile – lotta, manifesta, fa sentire la sua voce. E poi, dopo anni di scissioni, si è avviato un processo inverso: a febbraio scorso, in una grande assemblea al palazzo dei congressi di Roma – più di 3.000 delegati – si è data vita al processo costituente di una nuova, unitaria, forza politica che dovrebbe vedere la luce entro l'anno. Animatrice principale ne è stata SEL (Sinistra ecologia e Libertà) che, coraggiosamente, pur essendo il solo partito a sinistra del PD ad avere una non piccola rappresentanza parlamentare (34 rappresentanti fra Camera e Senato) ha annunciato la propria disponibilità a sciogliersi per confluire in una nuova organizzazione. Cui ha già aderito un drappello di deputati, e militanti, che hanno deciso di abbandonare il PD. E anche ACT, la rete emersa dalle organizzazioni del sindacalismo studentesco di sinistra. Ma sopratutto molti compagni, sindacalisti e non, restati in questi anni senza casa politica, che hanno capito la necessità di dar vita, se si vuole contare, a una forza politica unitaria, capace di superare in avanti le rotture di questi anni.

Non tutti hanno accettato di sciogliersi nel nuovo processo: non Rifondazione Comunista, gelosa della propria specifica identità; non tutti gli aderenti ai Comitati Tsipras, quelli che alle scorse elezioni europee sono riusciti a mandare al parlamento europeo tre deputati. E però va detto in positivo che, nelle ultime elezioni amministrative, a maggio scorso, nonostante queste diverse scelte, si è riusciti in quasi tutte le grandi città a dar vita, tutti assieme, a coalizioni civiche che oggi restano attive sui territori.

Ce n'est qu'un debut, naturalmente. Il grosso della protesta resta in Italia assorbito dal Movimento 5 stelle, un fenomeno ambiguo, entro cui operano brave persone e però molti «maneggioni», autoritariamente diretti da un direttorio che rifiuta la trasparenza e alimenta ulteriormente la sfiducia nella politica, e cioè nella democrazia.

 

*Pubblicato sul Quaderno 8 del ForumAlternativo