La Svizzera che s'inginocchia davanti a Trump

di Franco Cavalli

tratto da "Area il portale di critica sociale e del lavoro".

In Europa, ogni candidato a una qualsiasi funzione politica, che abbia la dabbenaggine di dirsi sostenitore di Trump, perde immediatamente buona parte del sostegno popolare e quasi sempre va incontro ad una sconfitta elettorale.

Questo fatto non sembra interessare diversi consiglieri federali borghesi, che dal momento dell’ascesa al potere del balordo finanziere di New York non hanno perso occasione per esprimere la loro soddisfazione. Così Ueli Maurer, di ritorno da una conferenza a Washington, non trovò di meglio che sottolineare come ormai l’atmosfera politica della capitale statunitense fosse molto, ma molto migliorata, mentre Schneider-Ammann, che non ha mai mosso paglia per difendere l’occupazione in Svizzera, non perde occasione di ricordare che tra imprenditori (alludendo al suo ruolo prima di entrare in politica) è ora più facile intendersi che non con il presidente precedente.

Da quando poi Trump ha accettato di venire a Davos al Wef, il Consiglio federale è stato in preda ad una vera frenesia, quasi ci fosse una gara tra i nostri “padri della patria” per vedere chi avrà poi avuto maggiormente la possibilità di incontrare the Donald.

 

Cosa sia il Wef lo sappiamo tutti: lì si incontra l’élite economica che domina il mondo e ogni anno lì si celebra la messa dedicata alla glorificazione del profitto e soprattutto a come fare per massimizzarlo.

Due anni fa ho dovuto parteciparvi, perché invitato a riferire, quale foglia di fico, su progetti oncologici internazionali, avendo perlomeno la fortuna di non dover pagare i 30.000 franchi di iscrizione richiesti ai singoli partecipanti. Da una parte fu interessante, avendo avuto per esempio la possibilità di ascoltare il ministro dell’economia tedesco Schaeuble esprimersi in modo sprezzante sui paesi mediterranei in generale e sulla Grecia in particolare.

D’altra parte, e non poteva essere diversamente, ero rimasto sconvolto dall’atmosfera che vi si respirava e dal comportamento sprezzante verso ogni forma democratica della stragrande maggioranza dei rappresentanti di questa élite capitalistica. E mi sono ripromesso, anche se ancora invitato, di non mai più andarci.

 

Ma torniamo a Trump. Purtroppo, anche da noi, spesso i media lo presentano come un personaggio un po’ folcloristico, avulso alla “grande tradizione democratica statunitense” e che quindi a un dato momento verrà rimandato a casa dalle forze dominanti. I più seri aggiungono che il partito repubblicano l’avrebbe tollerato finché fosse riuscito a far passare gli enormi sgravi fiscali ai super-ricchi e alle grandi aziende monopolistiche. Ciò è nel frattempo avvenuto, ma non si nota nessun cambiamento d’atteggiamento.

Ciò che si dimentica è che Trump rappresenta gli interessi di una grande parte del capitale finanziario, del capitalismo tradizionale (industria pesante, petrolio), nonché dell’importante complesso militare-industriale: che poi sia poco gradito nella Silicon Valley e a Hollywood conta ben poco.

Senza l’appoggio delle forze dominanti del capitalismo statunitense, Trump non sarebbe mai arrivato al potere.

 

Trump sta aizzando con il suo comportamento i peggiori sentimenti razzisti e xenofobi, già presenti in buona parte della società americana. Non c’è quindi da meravigliarsi se gli episodi di violenza contro gli afro-americani e gli immigrati latinos stiano moltiplicandosi.

 

La situazione potrebbe diventare esplosiva, anche perché la resistenza delle donne, degli afro-americani e della sinistra si sta a poco a poco organizzando. Quest’anno ricordiamo i 50 anni del ’68: allora la guerra in Vietnam fu il detonatore principale che scatenò la protesta. Speriamo che Trump riesca a scatenare qualcosa di simile contro di lui, ma in generale contro il dominio neoliberale a livello mondiale.