La nuova frontiera del capitalismo: la vita a disposizione del lavoro

di Claudio Carrer (7 dicembre 2017)

Chiacchierata a tutto campo con l’economista Christian Marazzi: l’attualità dell’analisi di Marx nel Capitale pubblicato 150 anni fa, il biocapitalismo odierno, la crisi della socialdemocrazia e gli errori dei movimenti marxisti.

Questo 2017 che si sta per concludere coincide con il 150° anniversario della pubblicazione del primo volume della monumentale opera di economia politica Il Capitale del filosofo tedesco Karl Marx. Un’opera antica ma al tempo stesso moderna e attualissima: seppur concepita in un’epoca storica in cui il capitalismo era dominate solo in Gran Bretagna, essa resta uno strumento fondamentale per comprendere la natura delle ingiustizie e degli squilibri di questo sistema economico, nel frattempo divenuto dominante e globale.

Marx dimostra in particolare come il profitto sia generato dallo sfruttamento della forza lavoro e dall’appropriazione, da parte dei pochi che controllano i mezzi di produzione, dell’intero valore prodotto dal lavoro. In particolare del cosiddetto «plusvalore», cioè della differenza tra i guadagni e la remunerazione sufficiente al mantenimento della forza lavoro, da cui esce perdente, naturalmente, il lavoratore, condannato a un salario «di sussistenza».

 

A questo concetto, che è al centro dell’analisi di Marx sulla nascente società capitalistica, ha dedicato un libro (Che cos’è il plusvalore?, Casagrande, 2016) l’economista Christian Marazzi, cui abbiamo chiesto una riflessione sull’attualità del pensiero di Marx e sul suo rinnovato vigore tra gli storici e gli economisti.

 

Christian Marazzi, partiamo da qui. In parole semplici che cos’è il plusvalore e in che misura l’omonima dottrina ci aiuta a comprendere le ingiustizie sociali e la loro relazione con il sistema capitalista odierno?

 

Il plusvalore è sicuramente la categoria centrale dell’analisi di Marx, nel senso che gli consente di sviluppare una critica di tutto il pensiero economico a lui contem poraneo e precedente, in particolare quello di Adam Smith e di David Ricardo, i fondatori dell’economia politica classica. Il plusvalore spiega da un lato lo sfruttamento, cioè l’estrazione di valore attraverso il lavoro da parte del capitale, un valore che supera quello delle merci salario con cui viene remunerata la forza lavoro. Dall’altra permette anche di introdurre la distinzione tra forza lavoro come merce e lavoro vivo, cioè lavoro con una forte connotazione soggettiva, che è anche quello dentro il quale maturano la resistenza e i sentimenti di classe che sono stati il motore della storia, perlomeno nella visione di Marx.

 

Le forme di lavoro gratuito che carat- terizzano l’odierno mercato del lavoro rappresentano un fenomeno che va addirittura oltre…

 

Noi siamo in un periodo in cui abbiamo contemporaneamente due forme di plusvalore, quella assoluta e quella relativa, come le definiva Marx. Il plusvalore assoluto rimanda a un prolungamento della giornata lavorativa e quello relativo a un aumento della parte di lavoro di cui si appropria il capitale in virtù di una riduzione del salario. La presenza del lavoro gratuito che si aggiunge al plusvalore ci permette di parlare di una cosa nuova rispetto al capitalismo industriale analizzato da Marx: siamo in effetti di fronte a una dilatazione del plusvalore al punto tale da includere la vita stessa. Sono convinto che la definizione del capitalismo attuale come «biocapitalismo» sia pertinente. Siamo infatti confrontati con un capitalismo nel quale sempre di più il tempo di vita è reso disponibile per il lavoro nelle sue forme più diverse. In Svizzera e in Ticino in particolare, assistiamo a un aumento dei lavori a tempo parziale e di breve durata, che presuppongono però una disponibilità pressoché totale del lavoratore a essere chiamato in ogni momento dal datore di lavoro. Il non fare è diventato insomma una condizione del fare e qui s’insinua la gratuità, che è una nuova declinazione del plusvalore, oltre il lavoro salariato.

 

Questo si riflette anche con un aumento dei problemi di salute per lavoratori…

 

Quando si mette la vita a disposizione del lavoro, perché è di questo che si tratta, si sviluppa tutta una serie di patologie legate allo stress, all’insonnia, al burnout eccetera, perché è sempre più difficile trovare nella propria vita momenti o ambiti non solo di riproduzione di sé stessi come forza lavoro ma anche di liberazione di felicità, di affettività. I filosofi dicevano che la finalità del lavoro è il non lavoro, mentre oggi noi lavoriamo per lavorare. Gli inglesi usavano dal canto loro l’espressione «working for the weekend» (lavorare per il fine settimana) che oggi si è trasformato in «working on the weekend» (lavorare il fine settimana). C’è insomma una sussunzione del sabato e della domenica sempre di più nella settimana lavorativa: è la nuova frontiera del capitalismo. Tant’è vero che adesso si studiano anche sistemi per ridurre le ore di sonno, in modo tale da aumentare la disponibilità al consumo e al lavoro. Siamo pienamente in un capitalismo in cui la distinzione tra lavoro e vita è scemata.

 

E contemporaneamente si tende sempre di più a misconoscere questo aspetto. Si pensi per esempio alle mutazioni subite dall’assicurazione invalidità, che tende a ridefinire il concetto di malattia psichica per non riconoscere determinate patologie dovute allo stress da lavoro.

 

Questo è molto evidente anche nell’assicurazione infortuni, la quale contempla solo un certo tipo di rischi professionali ed esclude questi nuovi. Assistiamo insomma a una privatizzazione della copertura assicurativa, attraverso un trasferimento di oneri dal datore di lavoro (cui spettano i costi per l’assicurazione infortuni) alla collettività (assicurazione malattia). Siamo di fronte a una privatizzazione dei benefici e a una socializzazione dei costi della salute.

Voglio però aggiungere che queste nuove realtà vengono misconosciute anche in ambito marxista. Sono esterrefatto della resistenza di alcuni marxisti che ancora imperversano e hanno un certo peso, nel riconoscere questa dilatazione dei processi di sfruttamento, di estrazione del plusvalore in ambiti vitali, esistenziali. Nella tradizione marxista risulta difficile ragionare al di fuori di quella che è la relazione salariale e dunque danno molto fastidio i tentativi di riproporre in termini nuovi la questione della remunerazione del nuovo lavoro produttivo. Una remunerazione che non può essere circoscritta in ambito salariale ma deve chiamare in essere anche altre forme di riconoscimento monetario. Parlo del cosiddetto «reddito di cittadinanza» o «reddito incondizionato» che dir si voglia, cioè di un reddito legato al riconoscimento del carattere produttivo della vita messa al lavoro.

 

Pur avendo concepito l’opera in un’epoca in cui il capitalismo era solo nascente, Marx aveva previsto tutto, anche la cosiddetta globalizzazione, come strumento di salvaguardia del profitto, dalle pesanti conseguenze per l’intera umanità ormai sotto gli occhi di tutti. Che previsioni si possono fare circa la gravità dei sacrifici imposti ai lavoratori e ai danni causati all’ambiente?

 

In Marx l’economia di mercato ha sempre avuto una vocazione mondiale, già nella sua forma inaugurale. La storia del capitalismo è la storia di questa sua intuizione di una crescente determinazione capitalisti ca a un mercato su scala globale. Ne sono la conferma l’accelerazione della globalizzazione degli ultimi trent’anni e quello che con essa va di pari passo, cioè l’approfondimento delle disuguaglianze e l’aumento della forza e del potere delle grandi imprese che possono muoversi in modo sempre più agile da un contesto all’altro, aggirando per esempio qualsivoglia forma di prelievo fiscale, sfruttando i margini in termini di costi del denaro, costo del lavoro eccetera.

Il problema è che in questo processo la sinistra in senso lato (quella prevalentemente socialdemocratica, che ha governato in più situazioni in Europa) ha visto solo l’aspetto progressivo della globalizzazione e così facendo ha assecondato (se non addirittura sposato) le politiche neoliberali che sono alla base della globalizzazione. Questo ha portato a un’inevitabile perdita di credibilità della sinistra e ha aperto spazi enormi al populismo di destra, al sovranismo, a rivendicazioni per un ritorno allo stato nazione come vie per rovesciare o arrestare la tendenza (si pensi all’«America first» di Trump). Ma queste soluzioni sono ancora peggio del male. La sinistra, pur vivendo una fase confusionale e di sfarinamento interno, se vuole avere una chance di giocare ancora un ruolo in questa epoca, non credo che lo possa fare sul terreno della destra populista e quindi sul terreno di un ritorno alla sovranità nazionale. Del resto, se non ci poniamo il problema della costruzione di un fronte di resistenza su temi che siano sì ancorati al qui e ora (dunque in una dimensione locale e concreta) ma allo stesso tempo anche iscritti dentro una prospettiva europea, rischiamo di perdere tutto.

 

La sinistra ha dunque delle colpe di fronte a fenomeni come la diffusione del razzismo, il ritorno dell’antise- mitismo e della nascita di formazioni politiche reazionarie?

 

La socialdemocrazia che negli ultimi trent’anni ha governato in Europa ha sicuramente privilegiato politiche basate sul compromesso, sull’idea di sacrifici in vista di un rilancio della crescita e degli investimenti. Cosa che non è accaduta e che ha fatto perdere consensi e provocato insofferenza in una base confrontata con problemi di lavoro, di occupazione e di vita e che dunque non poteva più identificarsi con la socialdemocrazia. Alla fine ha così scelto di appoggiare questi nuovi schieramenti, che certamente non hanno alcun interesse reale a risolvere i suoi problemi, ma si limitano a cavalcarli. Del resto questi soggetti non hanno nemmeno delle proposte. La via dell’«America first» non è certo il modo per restituire occupazione a chi l’ha persa a causa della globalizzazione. Anzi, penso che siamo entrati in un’epoca in cui avremo il crollo di tutte le promesse fatte, una dopo l’altra. Saremo confrontati con la lotta contro la politica delle promesse.

 

La crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008/2009 e da cui non si vede alcuna via d’uscita sembra aver aperto gli occhi anche a molti economisti bor- ghesi sui limiti (chiamiamoli così) del sistema capitalista. Discende da qui la ripresa d’interesse per Marx?

 

La crisi che stiamo vivendo è una crisi di stagnazione secolare, dovuta prioritariamente al fatto che questa domanda stagnante generata dai salariati è confrontata con una crescita del plusvalore che provoca la situazione di deflazione che abbiamo visto in questi anni. Però allo stesso tempo, al di là degli aspetti legati alla domanda basata sui salari, assistiamo a una crisi dei pilastri che hanno rappresentato le risposte storiche del capitalismo al problema del plusvalore: l’imperialismo, lo stato sociale e la finanziarizzazione, tre forme di creazione di una domanda aggiuntiva per poter consumare i beni incorporanti plusvalore.

Non abbiamo quindi all’orizzonte, come era stato il caso negli anni a Trenta, né un’ipotesi di rilancio dello stato sociale né un’ipotesi di rilancio della domanda attraverso l’indebitamento privato. E anche l’imperialismo ha passato il suo tempo: basti pensare al fatto che oggi sono i paesi emergenti che finanziano i paesi del capitalismo maturo. Siamo insomma in una posizione di totale stallo. Per questo ritengo fondamentale il dibattito sul plusvalore, sulle sue origini, su come si sta dilatando l’estrazione di plusvalore, per poter fondare teoricamente e scientificamente delle ipotesi, e dunque delle rivendicazioni e delle forme di lotta, su nuove forme di remunerazione della vita messa al lavoro.

Si tratta segnatamente di riconoscere il nostro contributo alla creazione di valore anche nei tempi di non lavoro: si pensi ai dati relativi alle grandi imprese dell’era digitale. Imprese che fanno profitti immensi sulla base dei nostri dati personali che noi forniamo semplicemente usando i motori di ricerca in internet, carte di credito, insomma vivendo.

Riuscire a capire che questi dati sono materia prima per la produzione di valore e di plusvalore è fondamentale. Questo è un dibattito da affrontare, ma purtroppo nella sinistra marxista vedo sempre di più delle chiusure di fronte a queste sfide del capitalismo e dei ripiegamenti consolatori su Marx, che era tutt’altro che una persona che si chiudeva nel suo pensiero ma che apriva, provocava.

Pensa cosa ha significato 150 anni fa parlare di plusvalore. Perché oggi non abbiamo questo suo coraggio e invece di aprirci ci chiudiamo? Aprirsi vuol dire far interagire le intelligenze che ci sono nella sinistra.

 

In questo senso la celebrazione dei 150 anni del Capitale può essere utile alla sinistra a essere sinistra?

 

Certamente. Non si può pensare di essere sufficienti con delle categorie che il capi tale stesso ha in qualche modo fatte proprie (i più esperti in plusvalore sono i capitalisti: sono i più bravi e i più sofisticati nell’estrarre plusvalore da qualsiasi nostro gesto!). Siamo umili e spietatamente critici.

 

Appurato che il capitalismo è fallito, è legittimo interrogarsi sulla sua fine, sui tempi e sui modi?

 

Il capitalismo è fallito ma c’è sempre. Il suo superamento può solo essere frutto della lotta di classe. Non esiste altro modo per farlo crollare se non con una soggettivazione della resistenza, per uscire dall’assoggettamento della forza lavoro, della vita, dei popoli, di interi nuovi territori e dell’ambiente (che è la natura propria del capitalismo). Oggi è sicuramente in una fase di forti contraddizioni sistemiche e politiche (la svolta populista di destra è per esempio un problema per il capitalismo), ma scordiamoci l’auto-superamento. E non illudiamoci nemmeno, come fa qualcuno anche a sinistra, che il ripiegamento su formule autarchiche e localistiche sia un modo per superarlo. È una pericolosa illusione e la preparazione di un’epoca di tragedia.

 

Vedi dunque una sottovalutazione di questi fenomeni?

 

Certamente. Penso che la sinistra debba essere critica con sé stessa prima di esserlo con gli altri. Ammettendo innanzitutto che anche nella sinistra c’è chi pensa che con una svolta di destra si creino le condizioni per il superamento del capitalismo nella sua forma globale. Questo è un pericolo che si sta insinuando all’interno della sinistra stessa. Ahimé!