di Bruno Neri
Inclusione ed equità. Chi non potrebbe dirsi entusiasta di una riforma scolastica che riassuma in queste due belle parole le sue ambizioni?
È «La scuola che verrà», prodotta negli uffici di Emanuele Berger, direttore della Divisione della scuola ticinese, e benedetta politicamente dal ministro socialista Manuele Bertoli a capo del Decs.
Una riforma che non ha goduto del medesimo dibattito intenso che ci fu in occasione del passaggio dalla scuola maggiore-ginnasio alla media unificata. Eppure quanto propone questa riforma una discussione approfondita la meriterebbe, vista la pretesa di rivoluzionare la scuola dell’obbligo.
Suona strana l’assenza di dibattito, di confronto, su un tema socialmente importante quale l’educazione. Si ha la netta impressione di una direzione autoritaria del progetto, senza una reale capacità di ascoltare le istanze, i dubbi provenienti da chi poi sarà chiamato a metterla in pratica. Decine di Plenum dei docenti, associazioni e sindacati hanno posto numerose perplessità sulla riforma nella prima consultazione.
Nessuna risposta articolata è mai arrivata. Chiamarla consultazione appare dunque azzardato, dichiarare che gode di «ampio consenso», offensivo. Una seconda consultazione è in corso e si concluderà a marzo.
Peccato che in alcuni istituti sia già partita la sperimentazione della messa in pratica della riforma. Come dire: dite pur quel che vi pare, noi la realizziamo.
Sembra quasi che la direzione e lo sponsor politico ritengano il corpo insegnante un avversario invece di un prezioso alleato con cui costruire la massima condivisione possibile di un progetto tanto ambizioso.
Chi tra i docenti non si conforma, non plaude entusiasta al sol dell’avvenire, deve essere imbavagliato, intimorito. Non si spiega altrimenti l’assenza di dibattiti pubblici negli istituti dove si siano confrontati fautori e scettici insegnan ti sulla scuola che verrà.
Davvero i docenti sono un sol corpo insegnante unanimemente entusiasta oppure il dissenso è stato bandito, dove nessuno osa esprimere delle critiche, pena delle ritorsioni?
Eppure di materia sui cui essere scettici della bontà della riforma ve ne sarebbe, su cui varrebbe almeno aprire un trasparente dibattito. Limitiamoci a esporne due.
Prendiamo la prospettata promozione dell’equità e dell’emancipazione sociale, da realizzarsi attraverso il nuovo concetto dei laboratori-atelier. Per sei settimane dell’anno, gli allievi di due classi unificate seguiti da due docenti e un terzo esterno parteciperebbero a tre atelier divisi per opzioni. La prima opzione è definita orientativa (con pratiche vicine al mondo del lavoro), la seconda sportiva-creativa (sport, danza, teatro, fotografia, arti applicate ecc.), mentre l’ultima opzione è detta di approfondimento (delle materie già trattate o di nuove discipline: approfondimenti scientifici, linguistici, letterari, tecnologici, matematici ecc.) Gli studenti potrebbero scegliere tra le tre opzioni «seguendo le proprie inclinazioni», in base al «principio della personalizzazione e le pratiche didattiche legate alla differenziazione».
Sembra un mondo fantastico. Una scuola dove l’allievo possa scegliere cosa seguire a suo piacimento in base alle sue preferenze. Ci permettiamo di incrinare l’apparente certezza, chiamando in causa uno dei massimi pensatori della sociologia moderna, Pierre Bourdieu.
A scanso di equivoci, un sociologo il cui pensiero ha radici nel marxismo, i cui scritti hanno influenzato non poco le rivolte studentesche del ’68 e intellettuale impegnato in prima linea. Tra le altre cose, Bourdieu ha sviluppato un’analisi estremamente critica del sistema scolastico che riproduce la struttura sociale esistente e non la mobilità sociale che si prefiggerebbe come scopo dichiarato.
Una critica che parrebbe calzare a pennello anche per «La scuola che verrà». Secondo il sociologo francese, le attitudini, le opinioni, le motivazioni personali degli studenti non sarebbero innate nei ragazzi ma fortemente determinate dalla posizione socialmente occupata dalla loro famiglia.
Per dirla banalmente (cosa che Bourdieu avrebbe odiato), i figli dei genitori ingegneri, dottori e avvocati sarebbero fortemente più inclini ad approfondimenti scientifici o letterari, mentre i figli di operai sarebbero maggiormente indirizzati alle pratiche vicine al mondo del lavoro.
«La scuola che verrà», personalizzata sulle inclinazioni dei ragazzi rischia dunque di rafforzare le disuguaglianze sociali di partenza, invece di superarle. L’esatto opposto dell’equità dichiarata dalla riforma stessa. Tanto più che la personalizzazione delle inclinazioni degli stu denti si farebbe a discapito delle ore d’insegnamento delle materie classiche, notevolmente ridotte per lasciare spazio alle 35-40 giornate destinate agli atelier. Riducendo dunque il tempo all’apprendimento di conoscenze comuni, egualitarie per tutti gli allievi della scuola dell’obbligo.
Già questa osservazione basterebbe per porsi delle domande sull’assenza di dibattito della scuola che verrà. Ne aggiungiamo un secondo, in questo buio periodo di sacrificio della privacy nel nome della sicurezza. Per carità, nulla di securitario nella riforma scolastica proposta dal Decs, ma il rischio di schedatura, quello sì.
Stiamo parlando della cartella dell’allievo, un documento che dovrebbe contenere le informazioni sull’allievo nel corso della sua vita scolastica dall’asilo alla fine della media. Questi profili dovrebbero aiutare il passaggio d’informazioni da docente a insegnante e la pianificazione delle strategie per situazioni particolari. Questo l’aspetto positivo. E difatti, già si usa senza essere formalizzato nero su bianco.
Perché il rischio concreto è che questa schedatura dell’allievo lo perseguiti per tutta la vita.
Quel che potrebbe aver «combinato» in una fase mutevole della propria crescita come la preadolescenza o lo stato d’animo particolare vissuto in quegli anni, rimarrebbe per sempre scritto sul suo speciale curriculum scolastico.
Esagerazione? È già successo. In Francia ad esempio, lo stesso modello ha subito importanti modifiche dopo le forti critiche per aver causato danni all’allievo. Altro che incisività sociale ed equità.
Immaginate quale impatto possa avere una cartella dell’allievo su un possibile datore di lavoro d’apprendistato. Dal Decs si ribatte che non sarà il caso, senza però fornire spiegazioni precise di come saranno evitate le derive riscontrate in Francia.
In realtà, i dubbi da sciogliere su una radicale riforma dell’educazione obbligatoria sono diversi, troppi per elencarli in questo spazio. Una necessaria ampia e trasparente discussione s’impone, dove genitori e corpo insegnante siano i veri protagonisti.
I docenti devono poter liberamente esprimere dubbi e critiche prima di arrivare alla soluzione definitiva.
Ci vuole una profonda discussione di società prima di avventurarsi in scelte calate dall’alto in un tema tanto delicato e importante quale l’educazione.
Chi sbaglia in fretta, piange adagio.
Quaderno9 / 12 dicembre 2016