L’alleanza tra Israele e Arabia Saudita sconvolge il Medio Oriente

di Michele Giorgio

 

Il terremoto scatenato dal 32enne principe ereditario saudita Mohammed bin Salman all'interno del suo Paese e nella regione mediorientale, imponendo le dimissioni al premier libanese Saad Hariri allo scopo di sfidare apertamente l'Iran e i suoi alleati, fa vacillare pericolosamente gli equilibri che si sono consolidati nella regione in questi ultimi due anni, dopo l'ingresso prepotente della Russia a sostegno del presidente siriano e la firma nel luglio 2015 dell'accordo internazionale che ha riconosciuto la legittimità del programma nucleare civile dell'Iran, tra lo sgomento di Riyadh e Tel Aviv.

L'ondata di arresti eccellenti avvenuta a inizio novembre – che ha colpito decine di principi, dignitari, ministri e uomini d'affari, tra i quali anche il miliardario Walid bin Talal – che alcuni organi di stampa occidentali hanno ingenuamente descritto come una «campagna contro la corruzione» avviata da «un giovane principe che vuole rinnovare il suo Paese e modernizzarlo» e «una faida familiare», in realtà è un colpo di stato dall'alto volto a consolidare il potere di Mohammed bin Salman, di fatto già al comando dell'Arabia saudita tra i dubbi e le perplessità di tanti ai vertici del Regno.

 

La politica oltremodo aggressiva nei confronti di Tehran e l'intervento militare contro i ribelli sciiti in Yemen voluti dal giovane rampollo reale – la cui ascesa è avvenuta con la destituzione da parte di re Salman del legittimo principe ereditario, Mohammed bin Nayef – non hanno avuto l'approvazione di settori importanti dell'establishment saudita.

 

Il consolidamento, con la forza, del principe non mette in discussione in alcun modo il modello sociale ed economico saudita conosciuto sino a oggi ed è fondamentale per fare del regno dei Saud la superpotenza araba in Medio Oriente, bloccare il revival sciita e la crescente influenza dell'Iran, ridimensionare l'asse sunnita rivale Qatar-Turchia e dettare legge su tutti gli scenari. A cominciare dalla questione palestinese. Dalla parte del rampollo reale non a caso si sono subito schierati Israele e Stati Uniti, desiderosi di ribaltare l'ordine mediorientale emerso dalla sconfitta in Siria dei gruppi jihadisti incaricati dall'Arabia saudita, dal Qatar, dalla Turchia e da molti altri attori occidentali e arabi, di rovesciare «l'apostata» Bashar Assad alleato dell'Iran.

 

Starter della corsa in cui è lanciato Mohammed bin Salman è stata la visita lo scorso maggio a Riyadh di Donald Trump e il suo discorso anti-iraniano pronunciato di fronte a decine di leader di Paesi islamici sunniti. In seguito la Casa Bianca ha frenato rispetto alle ambizioni saudite, mostrandosi tiepida nei confronti dell'attacco che l'Arabia saudita e i suoi alleati – Egitto, Bahrain ed Emirati – hanno lanciato nei confronti del Qatar accusato di fare l'occhiolino a Tehran e di «sponsorizzare il terrorismo», come se Riyadh non avesse investito centinaia di milioni di dollari per armare e pagare gruppi estremisti e jihadisti in Siria, senza dimenticare i finanziamenti occulti partiti dal Golfo e finiti nelle casse dello Stato islamico.

 

Ma più di tutto Trump a ottobre ha scelto, per la gioia dei sauditi, di non certificare l'accordo sul nucleare iraniano. Quindi ha promesso una politica dura nei confronti di Tehran che ha subito indebolito il presidente moderato iraniano Hassan Rohani in un Paese dove molti ora si dicono delusi dal capo dello stato. Dopo la firma dell'accordo con l'Occidente sul nucleare e la revoca (mai completata) delle sanzioni internazionali, tanti iraniani avevano sperato in una crescita economica rapida e ampia per abbassare il tasso di disoccupazione e aiutare la crescita dei salari.

 

Il vento di guerra che è tornato a spirare forte nella regione fa gli interessi anche di Israele. Il premier Benyamin Netanyahu ora parla apertamente di «posizione comune» tra lo Stato ebraico e i Paesi arabi sunniti contro l'Iran. Una tv israeliana a inizio novembre ha anche rivelato l'esistenza di un telegramma inviato dal ministero degli esteri a tutte le ambasciate israeliane in cui si invitano i diplomatici a dare, durante gli incontri nei Paesi di competenza, sostegno aperto all'Arabia saudita e alla sua battaglia in Libano contro Hezbollah e l'influenza iraniana. Battaglia cominciata intimando al primo ministro Hariri, che è anche un cittadino saudita con forti interessi economici nel Regno, di farsi da parte in modo da far precipitare il Paese dei Cedri in una profonda e pericolosa crisi politica.

 

Nei disegni di Mohammed bin Salman e di suo padre re Salman questa mossa dovrebbe sfociare nel ridimensionamento del movimento sciita e del peso dell'Iran sulle questioni politiche libanesi. Netanyahu ne è felice perché l'alleanza dietro le quinte con la casa regnante saudita contro l'Iran è destinata anche a favorire il cosiddetto «Accordo del secolo» tra Israele e il mondo arabo che promette di realizzare l'Amministrazione Trump per mettere fine, alle condizioni di Tel Aviv, alla questione palestinese.

 

Ma non tutti in Israele guardano compiaciuti alle fiammate saudite.

L'autorevole quotidiano Haaretz, con un editoriale firmato dall'ex ambasciatore Usa a Tel Aviv, Daniel Shapiro, ha avvertito che Riyadh sta cercando di trascinare Israele in una guerra contro l'Iran e suoi alleati. Preoccupazioni forti si nutrono a Gaza dove molti temono che l'Arabia saudita farà il possibile per silurare l'accordo di riconciliazione raggiunto a ottobre da Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, e il movimento islamico Hamas considerato un «nemico» da Riyadh.

Non sorprende che persino un alleato dei sauditi, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, abbia messo in guardia contro un'escalation delle tensioni con l'Iran che potrebbe condurre a una guerra. «Io non sono per la guerra», ha detto al Forum dei Giovani a Sharm el Sheikh. «La regione sta già vivendo numerosi problemi. Dobbiamo approcciarci a queste nuove tensioni con la massima prudenza», ha aggiunto al Sisi, pur non nascondendo l'alleanza egiziana con Riyadh.

 

In attesa degli sviluppi del quadro regionale sono i curdi.

L'Arabia saudita assieme agli Usa ha dato sostegno negli ultimi anni ai curdi del Rojava, in funzione anti Bashar Assad. E il ministro saudita per il Golfo si è precipitato a Raqqa appena liberata dallo Stato islamico per promettere aiuti economici e politici. Siamo di fronte a una mossa tattica da parte dei Saud per spaccare la Siria oppure a un appoggio sincero all'autodeterminazione del popolo curdo? Il dilemma è forte alla luce dell'atteggiamento saudita nei confronti dell'esito favorevole del referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno dello scorso 25 settembre. Riyadh non ha fatto nulla di serio per appoggiare le aspirazioni curde e frenare l'esercito di Baghdad quando è partito alla rinconquista della città contesa di Kirkuk. Si è allineata piuttosto alla posizione degli Usa che continuano a giocare in Iraq e Siria la carta dell'appoggio al Kurdistan per indebolire i nemici senza poi fare passi concreti per realizzare le rivendicazioni curde.

 

È una partita che si annuncia lunga e difficile, oltre che pericolosa, quella che sta giocando Mohammed bin Salman. Per vincerla l'erede al trono dei Saud deve avere sempre dalla sua parte i Paesi arabi amici e, ancora di più, Stati Uniti ed Europa.

Il collante dell'alleanza sono i soldi, assieme alla storica alleanza con il clero wahhabita, garante del rispetto nel Paese delle pesanti regole di questa rigida corrente islamica sunnita.

 

Nella visione dei Saud, al wahhabismo dovranno adattarsi e piegarsi tutti i musulmani, ovunque. Il wahhabismo, credono, manderà in pensione l’Islam popolare moderato, figlio delle culture e della storia dei suoi tanti popoli.

È il martello che dovrà schiacciare il revival sciita incarnato dall’Iran. Non sorprende l'arresto nelle scorse settimane dell'importante religioso e predicatore moderato Salman Fahd al Awdah e del suo collega Awadh al Qarni, giudicati troppo «liberal» sui temi sociali, che sono finiti in manette perché non si sono esposti pubblicamente al fianco del proprio governo contro il Qatar.

 

L'acquisto di armi da Usa ed Europa è un altro fattore centrale della rete di alleanze su cui conta Riyadh.

L’Arabia Saudita è il Paese arabo che nel 2016 ha speso di più in armi ed era al quarto posto nel mondo con un budget per la difesa di 62,7 miliardi di dollari.

 

C’è poi in ballo una possibile collaborazione tra Arabia saudita e Mosca nell’ambito dell’energia nucleare. Riyadh, per rispondere al programma dell’Iran, progetta di coprire il fabbisogno interno di elettricità con il nucleare e di destinare l’intera produzione petrolifera all’esportazione. Già nel 2015 l’Arabia Saudita aveva firmato un accordo preliminare con la Russia per costruire i suoi primi reattori nucleari e lo scorso giugno, a margine del Forum economico di San Pietroburgo, ha sottoscritto un’intesa per la cooperazione bilaterale sull’uso pacifico dell’energia nucleare. Attesa infine per l’inizio del prossimo anno o forse nel 2019 la quotazione a Wall Street del colosso petrolifero saudita Aramco che dovrebbe superare la soglia dei 2mila miliardi di dollari.

 

Riyadh guarda anche a Oriente. Pechino si propone come capofila di un consorzio formato da banche, compagnie petrolifere, con il coinvolgimento del fondo sovrano cinese. Un investimento che unirebbe il settore petrolifero saudita con il mondo finanziario cinese. Il principe Mohammed bin Salman vuole anche costruire una smart city, Neom, dove «ci saranno più robot che essere umani». Un progetto da decine di miliardi di dollari che fa gola anche a investitori israeliani, rivelava qualche settimana fa il Jerusalem Post. Un motivo in più per saldare l'alleanza tra Tel Aviv e Riyadh, oggi segreta domani chissà.

 

 

Quaderno13 / 7 dicembre 2017