di Loris Campetti
Se il dato più clamoroso è il 32% del M5S che piazza i grillini al primo posto, non meno inquietante è il 37% raccolto da un centrodestra a trazione leghista.
Il primo sconfitto è Matteo Renzi che in pochi anni ha abbattuto il Pd facendolo precipitare dal 41 al 19%, appena un punto in più di Salvini. Il secondo sconfitto è Berlusconi fermo al nastro di partenza, bel 4 punti sotto la Lega. Il terzo sconfitto è Liberi e uguali che aspirava a raccogliere i voti dei delusi dal Pd riportandoli ai seggi e invece naviga appena sopra la soglia di sbarramento del 3%, in ansiosa attesa dello scrutinio dei 4,5 milioni di voti degli italiani all’estero.
Una vera debacle per il centrosinistra e una sinistra identificate come le responsabili delle leggi più odiate: dal jobs act alla buona scuola, dalla cancellazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori all’allungamento dell’età pensionabile. Gli ex Pd che con Sinistra italiana e Civati hanno dato origine a Leu promettendo la cancellazione di quelle leggi non sono stati perdonati per aver contribuito a vararle. Il fallimento di Grasso, Boldrini, D’Alema, Errani nei collegi maggioritari chiederebbe approfondite riflessioni.
Tornando al Pd, l’abbandono dell’antico azionista di riferimento – gli operai, i lavoratori dipendenti, i pensionati, i soggetti più colpiti dalla crisi – da parte di una sinistra che ha raccolto la bandiera del neoliberismo lasciata cadere da destre sempre più sovraniste, ha aperto un varco in cui sta penetrando la cultura dell’odio e dell’individualismo. Così si spiega il boom di Salvini. A Macerata, cattedrale del cattolicesimo democratico e solidale dove dalla fine della Dc ha sempre governato il centrosinistra, la destra è diventata il primo schieramento e la Lega il primo partito: suona come un lugubre applauso a chi spara ai migranti africani colpevoli solo per il colore della loro pelle.
Il Nord è terreno di raccolta per le destre, il Sud e le isole sono passate armi e bagagli nelle mani del M5S con percentuali anche superiori al 40%, nel Centro le regioni rosse stanno cambiando colore: destre in testa in Umbria, M5S e destre nelle Marche, Emilia a macchie di leopardo e persino la renziana Toscana cede pezzi significativi di territorio al M5S e alle destre. Della Liguria meglio non parlare, sommersa dall’onda di destra. Renzi ha scelto bene dove piazzare i suoi uomini e donne di fiducia, Boschi e Lotti sono tra i pochi sopravvissuti nei collegi uninominali, gli altri ministri sono andati a bagno, dal potente Minniti a Pesaro a Fedeli a Pisa, a rischio persino Padoan a Siena. Se la cava a Roma Gentiloni, vissuto (con notevole esagerazione) come alternativa a un arrogante Renzi, percepito da tempo come una palla al piede da una fetta dell’establishment e, come insegna lo scrutinio dei voti, da gran parte dell’elettorato già di sinistra. Pur di non votare Renzi non pochi hanno messo la croce sulla lista associata dell’iperliberista Bonino che per poco ha mancato il quorum del 3%. In attesa dello spoglio delle schede per le regionali del Lazio e della Lombardia, gli exit poll danno la destra comodamente in testa per la poltrona che fu di Maroni, mentre in Lazio sarebbe in leggero vantaggio Zingaretti, il presidente uscente sostenuto oltre che dal Pd da Leu . Infine, l’astensione è stata meno devastate di quanto si temesse: quasi il 72% dei votanti, appena 2,5 punti in meno che alle politiche del 2013. I risultati dicono che gli ex delusi della destra sono tornati in massa alle urne, ci vorrà tempo per capire se, dunque, quel 28% di astenuti proviene in larga parte dalle fila della sinistra, come verrebbe da pensare.
Come era stato ampiamente previsto da analisti, politici e sondaggisti, l’esito elettorale non prefigura un nuovo governo, in quanto nessuno dei tre schieramenti ha la maggioranza assoluta dei seggi. L’ingovernabilità era iscritta nella peggiore legge elettorale dell’Italia repubblicana. Sta al presidente Mattarella il compito di avviare una consultazione di tutte le forze politiche alla ricerca di una ipotetica maggioranza parlamentare, senza una fretta eccessiva dato che al momento dello scioglimento delle Camere aveva provveduto, in tempi dunque non sospetti, a mantenere vivo per l’ordinaria amministrazione il governo Gentiloni. Si è parlato di un ipotetico accordo tra M5S e Lega, tanto più che il rischio di un nuovo patto scellerato tra Pd e Forza Italia è stato scongiurato dagli elettori che hanno (avrebbero) pagato il biglietto di ritorno a casa a Renzi e Berlusconi. Ma se è chiaro il progetto di società che ha in mente Salvini, più difficile è definire il way of life di Di Maio. Basta il populismo a unirli? E i grillini, che hanno tagliato gran parte delle radici che avevano a sinistra, sono davvero convinti come Salvini che i migranti vadano fermati sul bagnasciuga? Che i partiti sono tutti uguali (ora che sono diventati un partito), tutti ladri? Se Di Maio spiegherà che non intende allearsi con nessuno, pretendendo che sul loro programma e sui loro ministri si piegheranno ora gli uni ora gli altri a testa bassa, difficilmente riceverà l’incarico da Mattarella. E se invece il tentativo di fare un governo venisse affidato alla destra (a Salvini?), quale orientamento prenderebbero le quattro gambe che la compongono ma camminano in 4 direzioni diverse? La prima verifica si avrà al momento dell’insediamento della Camera e del Senato, quando per eleggere i due presidenti sarà inevitabile un accordo politico almeno in parte trasversale. Resta l’ipotesi di un ritorno alle urne, il che presupporrebbe un accordo ampio su una nuova legge elettorale, nonché la disponibilità dei parlamentari a tornarsene a casa rinunciando a oneri, onori e, soprattutto, privilegi.
Un’ultima considerazione riguarda le forze (meglio sarebbe dire le debolezze) a sinistra del Pd. Hanno fatto di tutto per perdere, presentandosi con 4 liste diverse. Oltre a Leu, che difficilmente reggerà alla sconfitta e altrettanto difficilmente fermerà la tendenza dei suoi 3 soggetti costituenti a riprendersi l’autonomia per perdere ciascuno per conto proprio, c’è Potere al Popolo, lista di movimento nata dalla dissoluzione del tentativo unificante lanciato al Brancaccio e cresciuto in oltre 100 assemblee in tutt’Italia prima di essere affondato dal politicismo autosufficiente dei partitini. Centri sociali e Rifondazione comunista, che hanno deciso di continuare l’esperienza del Brancaccio in una lista, hanno raccolto un po’ più dell’1% e perciò hanno festeggiato (!) in diretta televisiva. Infine, Sinistra rivoluzionaria e Partito comunista che hanno disperso meno dell’1% in tutto. Siamo proprio sicuri che per ricostruire una sinistra in Italia si possa ripartire dagli avanzi di 4 sconfitte, e non dalla ripresa di una presenza attiva, critica, curiosa, rispettosa nella società, per capire cosa sono, cosa chiedono, come soffrono coloro che si vogliono rappresentare?