Politica, padronato e sindacati compiacenti conducono i salariati in un vicolo cieco

di Enrico Borelli

 

Alcune recenti decisioni che riguardano il mercato del lavoro ticinese necessitano di essere commentate perché evidenziano l’incapacità della classe politica e del Governo di leggere e capire la realtà quotidiana delle salariate e dei salariati

Chi ci governa continua ad adottare misure non solamente inutili ma sempre più dannose. Pensiamo in particolare a quattro esempi. Il salario minimo fissato dal Consiglio di Stato, la decisione della Tripartita sul rinnovo di diversi contratti normali, la scelta della SECO di escludere il Ticino dai minimi salariali nazionali delle stazioni di servizio e, infine, la riforma fiscale cantonale. Tutte queste misure si inseriscono nel solco delle politiche neoliberali che hanno prodotto i drammi che sono sotto gli occhi di tutti: povertà ed esclusione sociale.

Consideriamo innanzitutto la questione del salario minimo. Si tratta certamente di uno strumento utile per contrastare il dumping salariale. Alla luce della grande destrutturazione in atto nel mercato del lavoro, questo strumento tutela prevalentemente chi ha un contratto stabile, di tipo «classico». Molti vivono in situazioni di sottoccupazione e di lavoro intermittente senza garanzie. Il salario minimo è necessario per frenare la speculazione sulle retribuzioni, ma attenzione: se si fissano livelli salariali insufficienti si rischia di accompagnare il dumping, sdoganarlo e addirittura crearlo.

 

È il caso della decisione presa a maggioranza dal Governo ticinese. Determinando un salario orario compreso tra i 18.75 e 19.25 franchi lordi, si stabiliscono retribuzioni attorno ai 3’000 franchi mensili. Così facendo, da un lato si preclude l’occupazione ai residenti, perché certe paghe non permettono di vivere sul territorio cantonale, e dall’altro si mettono in concorrenza frontalieri e residenti, sfruttando chi deve accettare un lavoro a queste condizioni. È dunque una proposta non solo inadeguata ma pure pericolosa. Non risolve i problemi ma li acuisce. Non contrasta il dumping ma lo rinforza. Vedremo ora cosa farà il Parlamento. Non ci illudiamo. La maggioranza del Gran Consiglio è appiattita su posizioni liberiste. Noi auspichiamo che ci sia all’esterno del Palazzo un’unione delle forze associative, politiche e sindacali che hanno a cuore il destino di chi lavora in Ticino. Per costruire una campagna che spinga in un’altra direzione e per ribadire che con questi salari non si può vivere.

 

Altrettanto grave è quanto successo nella Commissione Tripartita. Gli ultimi rinnovi di contratti normali sono stati sanciti con dei livelli salariali scandalosi. Perfino inferiori a quelli proposti dal Governo per il salario minimo. Per esempio, i contratti per gli impiegati di commercio nei call-center, nelle fiduciarie, oppure quelli per i saloni di bellezza e le lavanderie. In quest’ultimo caso, si prevedono 17.45 franchi all’ora. La Commissione Tripartita è nata per combattere il dumping ma la maggioranza dei suoi membri prende queste decisioni, con la sola opposizione dei rappresentanti dell’Unione sindacale. Chi siede lì in rappresentanza dello Stato, del padronato ma anche delle altre organizzazioni sindacali, approva queste misure. Abbiamo dunque un Governo che propone salari indecorosi e una Tripartita che legittima livelli pure inferiori. Così facendo, si accetta un Ticino con un’economia a rimorchio dello Stato, perché con paghe di questo genere le persone possono campare solo richiedendo sussidi pubblici. Ciò accade se si considera il Ticino come una zona franca, che non può applicare salari svizzeri. Le scelte effettuate non fanno che aumentare la distanza tra i salari ticinesi e quelli del resto del Paese. Non possiamo costruire un futuro per le prossime generazioni e per il nostro tessuto economico con la politica dei bassi salari.

 

Una terza vicenda estremamente grave riguarda il contratto collettivo siglato a livello nazionale per il settore degli shop annessi alle stazioni di benzina. L’accordo è stato approvato anche dall’organizzazione padronale e prevede una paga minima di almeno 3’600 franchi, anche per il Ticino. Cosa succede poi? La SECO e il Consiglio Federale escludono dal campo di applicazione il Ticino a seguito del ricorso delle associazioni padronali ticinesi che ritenevano questo salario troppo elevato e «fuori da ogni logica». Nel nostro Cantone infatti è stato sottoscritto un contratto collettivo per il settore della vendita che prevede salari minimi inferiori, circa 3’200 franchi lordi. Questo su spinta del Dipartimento di Vitta e il beneplacito delle associazioni padronali. I ricorsi padronali sono stati presentati da tempo, la SECO ha aspettato che finissero i lavori a livello cantonale e ha deciso poi di escludere il Ticino dal campo di applicazione. Ricordiamo che è importante sottoscrivere dei contratti collettivi però questi sono utili solo se offrono risposte ai problemi delle persone. Per la prima volta la SECO interferisce in un accordo siglato tra organizzazioni sindacali e padronato a livello nazionale, utilizzando come alibi l’esistenza di un contratto collettivo nella vendita a livello cantonale. Si tratta di un autogol sconcertante per il Ticino. Il ricorso del padronato mette in luce quali retribuzioni questi signori vogliono preservare. Un salario inferiore di 400 franchi che riflette il ccl cantonale della vendita. Un ccl inefficace, un’icona vuota che rappresenta un vero regalo al padronato. Un ccl firmato da organizzazioni sindacali compiacenti, e in taluni casi prive di qualsiasi radicamento nel settore, piegatesi per un mero tornaconto economico agli interessi della grande distribuzione. Offrendo così a SECO e Consiglio Federale la possibilità di giudicare come eccessivi per la nostra realtà cantonale 3’600 franchi mensili. Una vergogna!

 

Infine, nella situazione di crisi sociale che vede il Ticino in cima alle classifiche della povertà, il Consiglio di Stato cosa propone? Una riforma fiscale che favorisce ulteriormente la defiscalizzazione dei grandi patrimoni e delle grandi società che conseguono utili. Discriminando oltretutto le piccole società. Questo quando sappiamo benissimo che tali politiche hanno creato negli ultimi vent’anni unicamente disuguaglianza. In un Cantone travolto dal dumping e dall’esclusione sociale, dove cresce il numero di persone che necessitano l’assistenza per sopravvivere, la riforma fiscale invece di equilibrare la situazione non fa altro che peggiorarla, lasciando presagire inevitabili nuovi tagli. Noi riteniamo che sia indispensabile un cambio netto di paradigma. È urgente contrastare questi disastri e per poterlo fare la Sinistra deve tornare a fare la Sinistra, difendendo gli interessi delle salariate e dei salariati. Interessi che sono contrapposti a quelli del padronato.

 

 

 

Quaderno 14 / febbraio 2018