Che tremi nel suo centro la terra: una candidatura per ribaltare un paese

di Afroditea

 

Parlare oggi di Messico vuol dire parlare di uno stato generale di violenza incrostatosi in tutto il territorio. Una violenza generalizzata che ha preso forma nel 2006 dalla dichiarata guerra al narcotraffico dell’allora presidente Felipe Calderon e che in 11 anni ha causato più di 100’000 morti e almeno 31’000 scomparsi (come i 43 studenti spariti ad Ayotzinapa nel 2014 con le evidenti implicazioni del governo).

Messico ogni giorno sono uccise 5 donne. Nel solo 2017 le vittime di omicidio doloso sono state più di 28’000 e negli ultimi anni sono state ritrovate 850 fosse comuni. Una situazione incontrollabile dove le connivenze e i loschi affari tra i vari partiti politici, il governo federale/statale/regionale, i corpi di polizia e i militari, con le organizzazioni mafiose che controllano il traffico di droga, di armi, di sequestro di persone, di grandi progetti (turistici e infrastrutture), di estrazione e di sfruttamento di materie prime (petrolio, miniere, acqua) sono continuamente provate e denunciate da più parti. Insomma un vero e proprio narcostato dove le condizioni di vita della popolazione messicana peggiorano sempre più e mentre il governo di Peña Nieto (lo ricordiamo già governatore dello Stato del Messico durante le violenze e gli stupri di Atenco nel 2006) continua le sue relazioni economiche privilegiate con i principali governi europei, Svizzera inclusa. Ultimo tassello in questo contesto di morte, distruzione e repressione (più di 500 lottatori/trici sociali arrestatx) da una parte e di enorme malcontento sociale e di lotte che si estendono in tutto il paese dall’altra, è la recente legge approvata dalla camera del governo messicano – Legge di Sicurezza Interna approvata a novembre del 2017 – che permette all’esercito di intervenire in situazioni di gestione della sicurezza interna del paese, in quello che si intravvede come una completa militarizzazione e che ripercorre la legge Condor imposta in Argentina negli anni ’70.

 

In questo contesto generale si inserisce la proposta del Congresso Nazionale Indigeno (CNI), impulsata dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), di candidare una donna, indigena, alle elezioni presidenziali di giugno 2018. Una sfida inconsueta e inusuale, dal momento che sia l’EZLN sia il CNI (a cui in tutto il paese aderiscono svariate comunità, collettivi, organizzazioni, nazioni, quartieri, tribù e popoli originari), da dopo il fallimento degli accordi di San Andrès nel 1997, avevano abbandonato del tutto la via politica istituzionale, concentrandosi sulla costruzione di processi d’autonomia e d’autodifesa all’interno dei propri territori. La candidatura diventa allora una sfida loca e senza precedenti, nata durante l’annuale riunione del CNI a inizio 2017, che se ha certamente creato malumori a una parte di «sinistra» istituzionale, risentitasi per la provocazione e paurosa di perdere voti utili, denota un’ulteriore e notevole capacità di reinventarsi e di far fronte agli attacchi. Così da maggio del 2017 dopo una consulta generale in tutte le comunità del CNI di tutto il Messico, si è arrivati a una nuova mega assemblea generale dove è stato definito un Consiglio Indigeno di Governo al quale fanno parte donne e uomini di tutte le comunità, e soprattutto a candidare María de Jesús Patricio Martínez, detta Marichuy, indigena Nahua dello stato di Jalisco, medica comunitaria, alle elezioni presidenziali del 2018.

 

Una provocazione seria alla quale servono, entro febbraio, 800’000 firme (50mila circa in almeno 17 dei 33 stati della repubblica messicana) e… una «app» che funziona solo su cellulari e tablet di ultima generazione. Altro piccolo particolare che racconta di un sistema classista, in cui indigene e indigeni (oltre che poveri e povere) ne sono completamente esclusi (il costo medio dei dispositivi adatti alla raccolta delle firme è di 5mila pesos, il triplo dello stipendio mensile dell’81.7% delle lavoratrici e lavoratori nel paese). Considerando inoltre che una grossa parte delle indigene e degli indigeni non posseggono le credenziali necessarie per iscriversi all’albo elettorale, ecco che la sfida assume significati ancora maggiori. Insomma una proposta che a prima vista potrebbe risultare senza troppo senso, ma che invece risponde a un preciso cammino di lotta e di riorganizzazione di tutto un movimento.

 

«Che tremi nel suo centro la terra», titolava il comunicato CNI/EZLN consultabile in italiano su http://enlacezapatista.ezln. org.mx. E non per una volontà di presa di potere e di cambiare le cose dall’alto ma per fomentare dal basso e da sinistra l’organizzazione e la mobilitazione per l’abbattimento del potere, in una cosmovisione altra di quei popoli originari che decidono per una rottura femminista di dignità, d’organizzazione e d’autonomia. Ed è proprio nel viaggio di Marichuy e delle delegate e dei delegati del Congresso Indigeno di Governo in tutto il paese, che emergere una presenza determinata, intensa, colorata di donne – soprattutto indigene, di diverse età e senza uomini ad accompagnarle – che, con gli occhi lucidi per l’emozione, aspettano prima e ascoltano in silenzio poi le parole di un’altra donna che per loro è speranza e orgoglio. In un Messico dove essere indigene e donne è una condanna, una firma indelebile di soprusi e violenze.

 

«Le elezioni sono la festa di quelli di sopra, noi vogliamo imbucarci e mandargliela a male. Non vogliamo competere con i partiti e il nostro obiettivo non è la conquista del potere politico marcio. Vogliamo smontare il potere di quelli di sopra, non amministrarlo», ci raccontava un delegato del CNI. E nonostante le critiche e i dubbi che tuttora emergono alla candidatura, uniti alla possibilità di non riuscire neppure a raggiungere le firme necessarie per partecipare alle elezioni, l’ultimo intervento del subcomandante Moises, il 1. gennaio di quest’anno, ribadisce i reali motivi di questa proposta indecente: «(…) nel saccheggiare le ricchezze naturali del nostro paese e del mondo, come la terra, i boschi, le montagne, l’acqua, i fiumi, i laghi, le lagune, l’aria e le miniere che sono conservate nel seno della nostra madre terra, perché il padrone considera tutto una merce e così ci vogliono distruggere completamente, cioè, vogliono annientare la vita e l’umanità. Per questo come popoli originari di questo paese che formiamo il Congresso Nazionale Indigeno, abbiamo deciso di compiere un passo e formare il Consiglio Indigeno di Governo e la nostra portavoce María de Jesús Patricio Martínez, che convoca, che informa, che infonde coraggio e invita tutti i lavoratori della campagna e della città a organizzarci, a unirci e a lottare insieme con resistenza e ribellione nei nostri villaggi e nei nostri luoghi di lavoro, nei nostri calendari e geografie affinché così possiamo difenderci dall’Idra capitalista che incombe su di noi.

 

Non una corsa elettorale ma per un percorso di lotta che solo nella resistenza e nella ribellione abbiamo trovato le strade possibili per continuare a vivere, che in esse ci sono le chiavi non solo per sopravvivere alla guerra del denaro contro l’umanità e contro la nostra Madre Terra, ma per rinascere insieme a ogni seme che seminiamo, con ogni sogno e con ogni speranza che si va materializzando nelle grandi regioni in forme autonome di sicurezza, di comunicazione, di governi propri a protezione e difesa dei territori. Pertanto, non c’è altra strada possibile che quella che si percorre in basso, perché quella di sopra non è la nostra strada, è la loro, e noi gli diamo fastidio». Insomma una lotta per la vita. Per una vita degna.

 

 

 

Quaderno 14 / febbario 2018