Gaza, situazione tragica anche prima di diventare poligono di tiro per gli israeliani

di Michele Giorgio

 

«In merito all'attentato C'è ancora un'indagine in corso e aspettiamo i risultati, ma riteniamo che il governo de facto (di Hamas, ndr) debba assumersi le sue responsabilità e trovare gli aggressori». Così si è espresso a metà marzo il premier palestinese Rami Hamdallah dopo essere sfuggito a un attentato nella Striscia di Gaza.

Mentre scrivevano non erano ancora chiari i contorni dell'attacco al convoglio di Hamdallah. Nei territori palestinesi occupati si sono fatte tante ipotesi che chiamano in causa nell'ordine: le cellule salafite, le fazioni di Hamas contrarie a cedere il controllo di Gaza al partito Fatah, spina dorsale dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) di Abu Mazen, e il solito Mohammed Dahlan, "rinnegato" della politica palestinese eppure pretendente alla presidenza grazie all'appoggio di cui gode presso l'Egitto e gli Emirati arabi uniti. E, ovviamente, non pochi hanno ipotizzato un attentato organizzato dai servizi segreti israeliani per gettare Gaza nel caos politico.

 

L'unica certezza però è il gelo calato sulle trattative per la riconciliazione interna in un momento delicato per le sorti palestinesi e per la Striscia di Gaza che sprofonda nella crisi umanitaria. «Abu Mazen conferma la posizione di fermezza adottata dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d'Israele fatto a dicembre da Donald Trump ma rischia di ritrovarsi isolato quando l'Amministrazione Usa presenterà il suo piano per il Medio Oriente e il conflitto israelo-palestinese», spiega a ForumAlternativo l'analista palestinese Ghassan Khatib, riferendosi alle manovre dietro le quinte che, secondo indiscrezioni, vedrebbero alcuni Paesi arabi del Golfo dare appoggio al progetto di Trump nonostante la netta opposizione dei palestinesi.

 

Il piano americano, stando alle versione di esso apparse sulla stampa araba e israeliana, non contempla un appoggio alla soluzione a Due Stati (Israele e Palestina) che per decenni è stato il principio di tutte le iniziative diplomatiche internazionali e che anche Stati Uniti hanno informalmente sostenuto fino all'ascesa al potere di Trump. Un motivo in più per Abu Mazen – che dopo anni di accondiscendenza ha messo in mostra una inedita propensione per lo scontro diplomatico con Washington – per insistere sull'esclusione degli Stati Uniti dal tavolo delle trattative e per la convocazione della conferenza internazionale che ha chiesto il 20 febbraio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

 

La Casa Bianca fa spallucce. Dopo aver adottato sanzioni economiche punitive contro i palestinesi – come il taglio dei fondi Usa per l'agenzia dei profughi Unrwa – ora lascia intendere che la «pace» in Medio Oriente si può fare anche senza i palestinesi. «È semplicemente folle immaginare che si possa raggiungere un accordo su un conflitto che dura da decenni senza la partecipazione di una delle parti. Senza il consenso palestinese non si potrà arrivare a un accordo credibile per questa terra», avverte Ghassan Khatib. Ma i segnali inquietanti in quella direzione non mancano. A metà marzo l'Amministrazione Usa ha convocato una conferenza a Washington su come aiutare la Striscia di Gaza alla quale hanno partecipato Israele, di Paesi arabi ma non i palestinesi. Abu Mazen in effetti aveva respinto l'invito – ritenendo il meeting un pretesto per promovere il piano americano – ma l'assenza dei rappresentanti palestinesi non è sfociata, come avrebbe voluto la logica, nell'annullamento dell'incontro che si è svolto regolarmente con la partecipazione anche dei delegati arabi. A questo si aggiungono le voci, credibili, di pressioni saudite sulla presidenza palestinese affinché faccia retromarcia e si dichiari pronta a negoziare le proposte americane.

 

Pare che Abu Mazen abbia ulteriormente irrigidito il suo rifiuto della mediazione Usa dopo che i regnanti sauditi, qualche settimana fa, gli avevano mostrato una bozza del «piano di pace» che non prevede la costituzione di uno Stato indipendente palestinese - «dovranno volerlo entrambe la parti» - e relega i palestinesi in Cisgiordania in una serie di bantustan senza alcuna sovranità reale (Gaza è già una enorme prigione a cielo aperto). A dare forza a queste indiscrezioni è stato anche il recente incontro al Cairo tra il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi e il potente erede al trono saudita Mohammed bin Salman. I due al termine dei colloqui avuti anche sulla questione palestinese non hanno emesso alcun comunicato a sostegno di Abu Mazen e della sua posizione.

 

Queste manovre dietro le quinte avvengono mentre le condizioni di vita di 2,1 milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza peggiorano di giorno in giorno. Sarebbe un errore considerare quanto sta accadendo come una semplice crisi umanitaria perché le sue radici sono politiche. Gaza non è stata colpita da un disastro naturale. Semmai è stata devastata da tre ampie operazioni militari israeliane negli ultimi dieci anni. La debolezza estrema della sua economia, incapace di generare posti di lavoro, e la fragilità delle sue infrastrutture sono la conseguenza dell'embargo attuato dal 2007 da Israele ed Egitto (ad eccezione dell'anno in cui al potere al Cairo c'erano i Fratelli musulmani alleati di Hamas). «Le malattie di Gaza, da quelle sociali a quelle economiche, hanno un unico motivo: il blocco israeliano. La nostra economia non potrà mai espandersi se non terminerà la chiusura. La mancanza di lavoro è un problema che colpisce quasi tutte le famiglie di Gaza. E i giovani pagano il conto più alto», spiega Basem Abu Jrai, un ricercatore del Al Mezan for Human Rights. A Gaza crescono le critiche ad Hamas, non pochi abitanti accusano gli islamisti di «non aver saputo governare», di aver puntato troppo sul confronto militare con Israele e di aver chiuso, con la loro rigidità, la strada a un'intesa con l'Anp di Abu Mazen. «Questo malcontento tuttavia non sfocia in una protesta aperta contro Hamas perché (i palestinesi di Gaza) sanno che il motivo principale della loro difficile condizione è il blocco israeliano».

 

Alla disoccupazione che sfiora il 47% (60% tra i giovani, 85% tra le donne), alla cronica scarsità di energia elettrica, si aggiunge la sempre più acuta mancanza di acqua potabile. Gli abitanti di Gaza si affidano quasi esclusivamente alla falda acquifera costiera, che è inadeguata a soddisfare la domanda sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Inoltre solo il 3% di quella pompata dalla falda rispetta gli standard di qualità fissati dall'Organizzazione mondiale della sanità. La maggior parte dei palestinesi dipende da piccole unità di dissalazione private, per convertire l'acqua salmastra in acqua potabile, ma a basso contenuto minerale e per di più vulnerabile alla contaminazione. Si prevede che la domanda domestica aumenterà dai 103 milioni di metri cubi del 2015 a oltre 140 milioni di metri cubi nel 2035, in base a un tasso di crescita previsto del 3,2% della popolazione. Sull'emergenza a Gaza lo scorso 20 marzo il segretario generale per l'Acqua e l'Ambiente dell'Unione per il Mediterraneo, Miguel Garcia-Herraiz, ha aperto una conferenza internazionale di donatori a Bruxelles con la partecipazione di 60 fra Paesi, organizzazioni internazionali e istituzioni finanziarie. Obiettivo: raccogliere fondi per il Programma centrale di desalinizzazione di Gaza, che consentirà di produrre 55 milioni di tonnellate di acqua l'anno. Le promesse di aiuto sono state importanti ma i partecipanti sanno che l'instabilità politica, la minaccia di una nuova guerra e il blocco israeliano di Gaza minacciano concretamente la fattibilità del programma volto a dare acqua potabile ai palestinesi che vivranno nella Striscia nei prossimi 20 anni.

 

In questo quadro non è irrilevante il deficit, il peggiore in 70 anni, dell'Unrwa causato in gran parte dalla decisione presa a inizio anno dall'Amministrazione Trump di tagliare una fetta significativa dell'aiuto Usa all'agenzia dell'Onu che assiste oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi a Gaza, Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria. La conferenza dei donatori convocata a metà marzo a Roma ha raccolto 100 milioni di dollari che però non bastano a colmare il deficit di 446 milioni di dollari annunciato dall'Unrwa per il 2018. I fondi al momento sono sufficienti solo per i servizi primari - assistenza alimentare, sanitaria e scolastica (per circa 500 mila studenti) - e sostituire il contributo americano sarà molto difficile. «Non ci vuole molto a comprendere che l'aggravarsi della condizione di Gaza, le pressioni su milioni di persone che, anche in Cisgiordania, sono in grave difficoltà e senza prospettive, rientrano in una strategia che mira ad indebolire i palestinesi e a premere sui loro leader affiché accettino un accordo al ribasso con Israele» dice l'analista Ghassan Khatib. «Ma le parti coinvolte commettono un grave errore – aggiunge - non solo nei confronti di una massa di persone incolpevoli.

 

Una pace imposta con la forza e priva di giustizia prolungherà all'infinito il conflitto tra israeliani e palestinesi».

 

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