Distrutti molti atti sull’esercito segreto P26

di RedQ

 

A molti oggi lo scandalo dell’armata segreta P26 come pure tutta la storia, altrettanto scandalosa, delle schedature, non dice più molto. Eppure all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso (quindi meno di 30 anni fa) furono temi che per mesi infiammarono l’opinione pubblica svizzera che si trovò improvvisamente confrontata con delle rivelazioni sensazionali.

 

Da una parte si scoprì che quasi un milione di svizzeri era stato schedato e che molti di loro erano stati soggetti a spionaggio ravvicinato per molto tempo, compresa la sorveglianza della posta, del telefono e dei contatti anche più personali.

 

Da parte della Sinistra si era spesso sollevato il dubbio, già negli anni precedenti, che ci fosse un sistema molto capillare di sorveglianza politica: eravamo però sempre stati messi a tacere, dicendo che avevamo le traveggole, alimentate soltanto da pregiudizi ideologici.

 

Ancora più scandalo fece la scoperta che per anni in Svizzera c’era stato un esercito segreto, di cui non si è mai saputa l’esatta consistenza, creato senza nessuna base legale e della cui esistenza nessun organo del parlamento era mai stato informato. Solo alcuni (?) Consiglieri Federali e pochissimi «Generali» erano a conoscenza di questa truppa segreta, che avrebbe avuto il compito di combattere non solo l’ipotetica «aggressione sovietica», ma anche il nemico interno, se ciò fosse diventato necessario.

 

Si parlò di campi di concentramento che erano stati pianificati per «i nemici interni della patria». La commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dal Consigliere agli Stati PPD del Canton Appenzello Carlo Schmid non chiarì mai la situazione sino in fondo, non da ultimo non si seppe mai con esattezza se questa P26 aveva avuto collegamenti con le altre armate segrete che erano state scoperte all’interno della NATO (per esempio in Italia) e se sì, fino a che punto andasse il coordinamento previsto.

 

In parte fu detto che quei documenti erano ancora coperti dal segreto di stato e che non si volevano mettere in pericolo l’onore, la credibilità e la vita famigliare di molti di coloro che erano stati membri di questo esercito segreto. Per cui si disse che tutti i documenti sarebbero poi stati resi noti e messi a disposizione del pubblico e degli studiosi «a tempo debito». Ora siamo venuti a conoscenza del fatto che molti di questi documenti «non si trovano più». Il dipartimento militare si era rifiutato di depositarli per esempio all’Archivio Nazionale, adducendo il pericolo di fuga di notizie. Ora questo non ci sarà più perché i documenti sono stati semplicemente distrutti.

 

Così purtroppo su quest’episodio particolarmente vergognoso della nostra storia nazionale neanche gli storici del futuro riusciranno mai a fare la necessaria chiarezza. Questo non tanto per salvaguardare «l’onore» dei singoli partecipanti a questa armata segreta, ma di coloro che avevano pianificato delle strutture e dei procedimenti degni dei peggiori intendimenti pinochetisti.

 

P.S.: Nel Caffè del 18 marzo, il Consigliere di Stato Gobbi giustifica la sua partecipazione a una manifestazione che riabilita la P26: incredibile per un responsabile della Giustizia! La P26 era una struttura segreta, assolutamente illegale e che, come determinato dalla Commissione d’inchiesta, rappresentava un pericolo per l’ordine costituzionale.

 

Se vogliamo paragonare il comportamento di Gobbi con quello (moralmente giusto) di Lisa Bosia da un punto di vista puramente legale, sarebbe come paragonare il non rispetto di un limite di velocità (Bosia) con un assalto a mano armata di una banca (Gobbi).

 

 

 

Quaderno 15 / aprile 2018

 

 

 

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