Lula tra il Bene e il Male del Brasile

di Eleonora Selvatico

 

Lo scandalo sollevato nel 2014 dal “Lava Jato” – lanciato in Netflix questo aprile come serie televisiva (El mecanismo) accusata da Lula stesso di creare “false notizie” che pregiudicano il Partito dei Lavoratori (PT) - continua inquietantemente a prendere la forma di macchinazioni golpiste. 

Lula, in testa col 41% d’intenzioni di voto per le elezioni brasiliane del 7 ottobre 2018, è stato arrestato il 7 aprile dal giudice Sérgio Moro. Sebbene non possa ricevere visite, José “Pepe” Mujica si recherà, in memoria della Caravana de la Esperanza, all’accampamento istallato di fronte al carcere di Curtiba (Parana).

 

Caso Lula 

A Luiz Inácio Lula da Silva è stata servita una (in)giustizia salata per l’accusa (formulata prima nel 2016, poi nel luglio 2017 e finita in appello alla Corte Federale Regionale n° 4 con sede a Porto Alegre) di riciclaggio d’una tangente del valore di 2,4mio reali (che corrisponderebbe a un appartamento di tre piani in Guarujà) ricevuta dall’impresa di costruzioni Oas (della multinazionale Odebrecht) in cambio della mediazione di Lula per favorirla nei contratti con Petrobras, l’azienda petrolifera - e più grande impresa statale - brasiliana. Oas avrebbe poi funto da prestanome all’ex presidente. Nonostante non ci siano prove, ma solo indizi, che il denaro corrotto dalla Petrobas sia stato utilizzato per acquistare un triplex, il 24 gennaio Lula è stato condannato in seconda istanza a 12 anni e 1 mese di prigione. Prevendendo l’arresto prima dell’ultimo grado di giudizio, questa sentenza contraddice la Costituzione brasiliana. La difesa ha fatto appello per l’assoluzione di Lula depositando un Habeas Corpus al Tribunale Supremo Federale. Questo, il 22 marzo, ha rinviato la data della sentenza, vietando nel frattempo l’arresto fino al 4 aprile. Dopo che il TSF gli ha negato Habeas Corpus, il 7 aprile Lula s’è consegnato alla Polizia Federale.

 

Ingiustizia e corruzione

“Corruzione vs Merito” è il binomio che struttura la narrativa dell’alleanza parlamentare - tutta maschile - che ha promesso l’uscita del Brasile dalla “crisi”, della lobby politico-spirituale e della classe medio alta insorta massivamente dal 2015 a favore dell’impeachment del 2016 di Dilma Rousseff, presidente democraticamente eletta da 54 milioni di brasiliani. Come quello di Lula, il processo che mise fuori gioco dal potere di governo Rousseff non partì da, ma cercò, un crimine che giustificasse la sua espulsione. Il mandato non fu infatti ritirato per corruzione comprovata, ma per un ipotetico non rispetto delle leggi fiscali e per l’apertura di crediti senza autorizzazione del Congresso Nazionale, configurato come crimine di “responsabilità”.

 

Michel Temer, dopo aver sottolineato la mancata attenzione del PT alla questione fiscale e al controllo dell’inflazione, ha proposto, oltre a privatizzazioni, delle riforme sul lavoro, previdenza ed educazione. Nell’ottica - sostenuta dai verdi-gialli - dell’offesa all’ideologia meritocratica da parte di coloro che possono scalare la gerarchia sociale (poveri, neri, donne) al di fuori di “meccanismi di selezione socialmente validi” (alias il trasferimento famigliare di capitali culturali ed economici che tende a garantire il “successo” nelle scuole e sul mercato), anche il salario minimo è stato considerato da Temer “troppo alto”, poiché la sua valorizzazione non è frutto d’un aumento di produttività. La democratizzazione dei diritti è (ri)vista come inefficienza e dipendenza nefasta degli individui dallo Stato, ovvero contrastata dal nuovo spirito del capitalismo cognitivo, l’ethos dell’imprenditore di sé o la valorizzazione di “sforzi personali” che negano la loro intelligibilità come “diritti sociali”.

 

Nonostante l’indice d’approvazione del governo Temer sia il più basso della storia democratica brasiliana (5%) e le accuse contro di lui siano più gravi di quelle rivolte a Rousseff, la scomparsa delle proteste massive sembrava caratterizzare l’epoca post-impeachment. Tuttavia, da marzo, gli affronti (consentiti) alla democrazia come i giudici che giudicano senza alcuna prova – e che s’iscrivono perfettamente nella mancata responsabilizzazione della memoria sulla dittatura (gli assassini circolano infatti liberamente per le strade, ricordando ai brasiliani quanto poco vale la vita) – sono stati riportati nelle strade da un “popolo” con un’altra fisionomia e un discorso di giustizia che denuncia sì la corruzione, ma puntando ai mandanti e ai sicari come responsabili del genocidio quotidiano di giovani neri nelle periferie urbane, di femminicidi e d’arresti di donne per aborti in condizione di clandestinità, di omicidi omofobi (più d’1 al giorno nel 2017) e provvedimenti annessi (come quello provvisorio del 2016 che ha autorizzo gli psicologi a trattare l’omosessualità come una malattia), dell’assassinio e repressione d’ambientalisti, piccoli agricoltori, indigeni, abitanti dei fiumi nell’Amazonia e di brasiliani uccisi dall’amianto prodotto e commercializzato in molti stati.

 

Marielle Presente! (leggi l'articolo)

L’assassinio di Marielle Franco - consigliera di Rio de Janeiro femminista, nera e compagna di vita e di lotta di Monica Tereza Benicio - avvenuto il 14 marzo nel quadro dell’intervento federale di militarizzazione della sicurezza a Rio decretato dal presidente Temer, continua a infervorare le piazze non solo brasiliane. La grande risonanza è dovuta in parte purtroppo all’avverarsi d’altri due femminicidi nell’arco della settimana che hanno colpito la direttrice del Centro di Riabilitazione Sociale femminile di Guayaquil Gavis Moreno e la messicana María Guadalupe Hernández Flores, ma anche al World Social Forum svoltosi dal 13 al 17 marzo a Salvador Bahia. Il 16 marzo, Manuela D’Ávila, pre-candidata alla presidenza della Repubblica del Partito Comunista, ha concluso dicendo che “Nessun’assemblea femminile era così importante. In questo Forum sociale mondiale, abbiamo costruito la migliore risposta che possiamo dare a coloro che hanno cercato di allontanare Marielle dalla lotta delle donne, delle persone di colore e delle comunità di favela periferiche. La nostra risposta è trasformare le lacrime in una lotta. E un sacco di combattimenti”. Il 14 aprile, senz’ancora nessuna risposta sull’autore del crimine, più di 120 città hanno manifestato #MariellePresente.

 

I proiettili che hanno ucciso Franco e l’autista Anderson Gomes sono della stessa partita - comprata nel 2006 dalla Polizia Federale brasiliana dalla Compagnia Brasiliana di Cartucce – che apparve nei corpi di 23 uomini giustiziati a Osasco (San Paolo) nel 2015 per l’uccisione dei quali 3 poliziotti militari e una guardia municipale furono condannate tra i 119 e i 255 anni di prigione. Se Raul Jungmann, ministro della Sicurezza Pubblica, ha affermato il 22 marzo che le munizioni erano state rubate alle Poste dello Stato di Paraíba, Guilherme Campos Jùnior (presidente delle Poste) ha negato l’informazione. Che le 12 pallottole siano state sparate contro Franco da poliziotti non è un’idea assurda. Nel 1990, quartiere di Acarì – dove Franco denunciò il giorno prima di morire l’operato sanguinoso del 41° Battaglione – scomparvero 11 ragazzi (7 minori) e un riscatto fu domandato e negoziato, senza che questi riapparvero. Le madri si mobilitarono per indagare sugli attori del crimine che alcuni avevano identificato come poliziotti. Due delle madri furono infine uccise in un’imboscata: 4 poliziotti in attività, un ex-poliziotto, un agente penitenziario e un impiegato municipale furono portati a processo.

 

Franco, pur non costituendo una minaccia giudiziaria o poliziesca per la mafia del potere, era una militante del Partito Socialismo e Libertà (una dissidenza del PT creata nel 2004), cioè d’un partito protagonista non solo nelle ultime elezioni di Rio, ma anche nell’attivismo contro le mafie e in particolare del modo d’agire delle “milizie” che controllano e lucrano, agendo come sicari, nelle favelas. A Rio, solo nel primo trimestre del 2017, ci sono stati 577 casi di morte di civili in “atti di resistenza” – un eufemismo per “esecuzioni”. Franco era una tra le voci autonome dei giovani delle favelas che hanno iniziato a occuparsi di politica, frutto del lulismo e soprattutto delle politiche “minori” d’auto-organizzazione e valorizzazione degli anni ’90 come i corsi comunitari “prevestibular” di preparazione all’accesso all’Università per poveri e neri da cui si sono sviluppate iniziative come la sollevazione del giugno 2013.

 

Secondo Giuseppe Cocco non ci sono molti dubbi: “Si getta il terrore sul PSOL di Rio e sull’attivismo indipendente per mandare un messaggio al livello federale: se l’intervento federale (condotto dall’esercito) s’immischia davvero negli affari della mafia del potere – come sta facendo l’operazione anticorruzione Lava Jato non solo con l’organizzazione partitica della mafia, ma anche con i suoi legami operativi, come ad esempio il responsabile del sistema penitenziario di Rio arrestato recentemente – ci sarà un costo, una reazione… che già sta avvenendo”. L’uomo incaricato dell’intervento militare federale, il generale Braga Netto, dichiarò infatti che “Rio de Janeiro è un laboratorio per tutto il Brasile”, facendo delle vite nere delle cavie per nuovi modelli securitari. Manifestamente fallimentari se valutati in rapporto al “sentimento di sicurezza” della popolazione, i laboratori servono piuttosto a misurare la reazione popolare alla repressione ma anche come minaccia per intimidire coloro che resistono alle nuove politiche. Il dito puntato da questa “lotta al narcotraffico” contro le favelas come luogo del pericolo per antonomasia risveglia - come ha scritto Franco nel suo ultimo articolo per il Jornal do Brasil - il mito delle “classi pericolose” come nemico pubblico per eccellenza. Il Brasile - e i governi occidentali - porta legittimamente avanti una lotta contro le politiche pubbliche (salute, educazione, etc.) per promuovere una sicurezza pubblica fondata sulle armi.

 

Legittima difesa o pena di morte?

Questa nuova dottrina di “repressione e impunità”, utilizzata anche dalla ministra di Sicurezza argentina Patricia Bullrich, dà carta bianca alla polizia militarizzata per agire senza ostacoli - senza “commissioni della verità”. Bullrich ha giustificato quest’“ordine d’assassinare” rendendo nota l’ipotetica paura che impedirebbe ai poliziotti d’operare “come si deve”. I movimenti di diritti umani per la Memoria, Verdad y Justicia l’hanno definita come un’applicazione sistematica, per mano delle forze di sicurezza, della pena di morte attraverso il “gatillo fácil” e l’hanno denominata “Doctrina [Luis Oscar] Chocobar” - in riferimento al poliziotto che nonostante sparò due colpi alla schiena d’un ragazzo (Pablo Kukoc) che accoltellò un turista a La Boca (Buenos Aires), venne giustificato per “eccesso di legittima difesa da parte delle autorità” e accolto come “eroe” dal presidente Mauricio Macri.

 

Accordandosi con la FBI statunitense per l’addestramento della Polizia Federale (sulle orme della Escuela de las Americas a Fort Amador (Panamá) che addestrò dal 1963 al 1976 gli eserciti delle dittature del Cono Sud alleate degli Stati Uniti nella lotta contro le organizzazioni politiche di sinistra, viste le modalità operative?) e con la DEA per un nuovo insediamento, il macrismo partecipa a combattere sia il “narcotraffico e terrorismo” che le comunità indigene (il caso di scomparsa forzata e uccisione di Santiago Maldonado a Chubut per mano della Gendarmeria Nazionale, il brutale assassinio del mapuche Rafael Nahuel da parte del gruppo Albatros della Prefettura Navale di Bariloce o quello di Facundo Ferrera, di solo 12 anni, ucciso con uno sparo alla nuca a Tucuman da poliziotti che lo ritenevano un delinquente che fuggiva in moto, sono stati i più mediatizzati), “aggiustando economicamente” il paese con politiche ultra-neoliberali per compiacere gli interessi stranieri. S’è registrato un aumento più che notevole in termini di repressione illegale - 725 casi di “grilletto facile” in 721 di governo Cambiemos - che comprende anche casi di tortura e morte nelle carceri e nei commissariati.

 

Da mito a martire: le domande difficili del caso Lula

“Io non sono più un essere umano. Io sono un’idea” - ha detto Lula dal palco del sindacato dei metallurgici di São Bernardo do Campo prima di consegnarsi “a testa alta” - “La morte di un combattente non ferma la rivoluzione”. Eliane Brum osserva che “Lula crede di poter essere un mito in vita, il corpo arrestato nella cella della Polizia Federale di Curitiba, mentre il mito attraversa il corpo della moltitudine. […] Con il diritto senza giustizia che ha segnato la sua prigione, le contraddizioni si spengono nello sforzo del mito. Ma non devono e non possono spegnersi […] perché è urgente ricostruire un progetto per il paese. Non si crea un progetto senza includere tutta la complessità di un’esperienza importante quale è stata quella del PT al potere. […] Lula è arrestato, non morto. Lula è ancora nel gioco del presente.”

 

Molte persone che credono ancora possibile l’anti-neoliberalismo in America Latina vorrebbero che Lula fosse quel che oggi – dopo il “Lava Jato” e i 9 anni di governo PT – non può più essere. La realtà d’un migrante nordestino, leader di lotte sindacali urbane e operaio che prende il potere tramite il voto ebbe un impatto enorme sulla vita dei brasiliani. Il governo Lula aumentò il valore reale del salario minimo e il lavoro formale, diminuì la povertà estrema e la disoccupazione, ampliò l’accesso all’università e diversificò l’insegnamento pubblico superiore (gratuito), migliorò il Sistema Sanitario e stabilì “quote etniche” e garanzie di credito per i più poveri sbloccando una fetta di consumo popolare represso. L’83% dei brasiliani considerò “buono”, se non “ottimo”, il suo operato al governo dal 2002 al 2010. Questo fece Lula, la leadership più importante del campo popolare e progressista da sempre nella storia brasiliana: nessuno può toglierglielo.

 

Ma le politiche luliste rivolte al miglioramento delle condizioni di vita del sottoproletariato brasiliano non devono occultare quelle rivolte alla parte “di sopra”. Anche se rafforzò le imprese statali e i gruppi privati nazionali (in particolare dei settori agrario e petrolchimico) con programmi di concessioni di credito sussidiati dal Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social e ricorsi ai fondi pensionistici statali, il suo “riformismo debole” non rimise radicalmente in discussione l’ordine costituito, promettendo invece degli incentivi alla produzione economica locale attraverso i quali “tutti” avrebbero vinto.

 

Il conflitto distributivo che si materializzò nelle strade dal 2013 e che dimezzò l’approvazione del governo di Rousseff (dal 65% al 30%; l’anno seguente fu infatti rieletta con un margine del 3%) criticò anche il carattere limitato e predatorio dello sviluppo del PT: la rendita del capitale finanziario troppo elevata, il dinamismo della produzione centrato su settori – per lo più volti all’esportazione – a bassa qualificazione, il trattamento colonizzante dell’Amazonia (uguale a quello dittatoriale) e il non proporzionale miglioramento di servizi e infrastrutture pubbliche in rapporto all’accesso al consumo della popolazione.

 

Le tattiche di conciliazione – e non di redistribuzione - portarono il PT ad allearsi con l’oligarchia brasiliana, indebolendo e criminalizzando i movimenti sociali, aumentando la tortura nelle carceri, cedendo davanti alla de-criminalizzazione dell’aborto e alla legalizzazione delle droghe, retrocedendo nella regolarizzazione fondiaria accentuando la deforestazione e la contaminazione dei fiumi. La Força Nacional mandata da Rousseff per reprimere indigeni, abitanti del fiume, piccoli agricoltori, poveri urbani e operai in sciopero per costruire l’opera idroelettrica di Belo Monte nella regione dello Xingu (in aggiunta al “via libera” ottenuto con l’impronta digitale su documenti che alcuni non poterono neppure leggere), rende secondo Brum il PT responsabile dell’etnocidio indigeno e della produzione di povertà nella periferia di Altamira.

 

Se Lula difese le macchine nelle strade invece del trasporto collettivo e di qualità, nel giugno 2013 il Movimento passe livre - principalmente studentesco - esigette l’annullamento della nuova tariffa dei trasporti pubblici a San Paolo. Il 20 giugno, un milione di brasiliani – per lo più di classe media - occuparono le strade di più di 300 città contro le spese per costruire gli stadi in occasione della Copa das Confederaçoes e per l’ampliamento e il miglioramento di trasporti, salute ed educazione. Depurato dalla “sinistra” reclamando una protesta “senza partiti” e dai “giovani” (2/3 del movimento >35; il 40% >51), questo movimento divenuto “intellettuale” (77% con almeno un diploma superiore) e bianco (77%), che diede alla luce gruppi liberisti e conservatori in grado di mobilitare direttamente l’élite brasiliana nelle reti sociali, s’è impanato in un discorso nazionalista concentrando la critica contro il governo PT e ottenendo il sostegno delle maggiori imprese di comunicazione brasiliane, in particolare di Globo. In sintesi, il PT è stato accusato dalla sinistra d’aver privilegiato il mondo del capitale-lavoro, rivelandosi non solo incapace di comprendere altre forme di vita e aspirazioni che non siano quelle della classe media, ma di “zittirle”. Agli occhi della classe media, invece, quello del PT è un governo che ha beneficiato più agli impoveriti e al grande capitale, rendendo economicamente più cari i servizi personali del suo stile di vita e attaccando i suoi privilegi tradizionali con l’allargamento dei diritti.

 

O povo unido jamais será vencido

Nel discorso di resistenza (nel quadro della celebrazione religiosa della moglie Marisa Leticia morta nel febbraio 2017 “per tutti gli attacchi ricevuti dalla stampa”) tenuto prima di consegnarsi alla polizia federale di Curtiba (poiché “troppo in età” per chiedere asilo politico), Lula ha designato i pre-candidati alle presidenziali Guilherme Boulos (PSOL) e Manuela D’Àvila come suoi eredi e due tra i “milioni e milioni di Lula in questo paese”. La Carovana per la campagna presidenziale di Lula si stava in effetti basando su una convocazione multipartitaria, più che pietista.

 

Boulos sta al Movimento dei Senza Casa nelle città come Lula sta ai Sem Terra che in 20mila, il 6 aprile, hanno bloccato più di 50 strade di 18 stati del paese. D’Àvila – la cui foto che la vede allattare durante un dibattito parlamentario diventò virale nel 2016 - incarna invece la potenza del nuovo femminismo che lotta per il riconoscimento del lavoro ri-produttivo a casa, nel mercato e nella comunità, nomché per la fine della violenza machista, razzista, classista e ambientale.

 

La campagna #Lulalivire sostenuta dai due candidati li ha portati in altri paesi a dibattere sulla congiuntura brasiliana. Boulos è andato in Portogallo. D’Àvila invece s’è recata tra il 12-13 aprile a Montevideo e a Buenos Aires, incontrando le forze politiche progressiste (il PSOL è gemellato con Izquierda Socialista de Argentina), l’ex presidente Cristina Fernández de Kirchner, le Madri di Plaza de Mayo di Hebe Bonafini, José “Pepe” Mujica e altri esponenti socialisti, comunisti e del Frente Amplio uruguayani che si stanno organizzando per andare all’ “accampamento Lula libero”, definito dal leader dei Sem Terra, João Pedro Stédile, “il cuore di Lula che resiste” in “veglia permanente finché Lula non recuperi la libertà”, luogo di resistenza che rappresenta l’appoggio a questo “prigioniero politico” e “unica persona al mondo processata per un appartamento che non è neppure suo”.

 

 

 

Bibliografia

 

Mario Agostinelli, “Documento finale Assemblea Donne Forum Sociale 2018”, in Forum Sociale Mondiale, 20/3/2018.

 

Eliane Brum, “Lula, o humano”, El País – Brazil, 9/4/2018.

 

Sávio Machado Cavalcante, “La crisi brasiliana e il ruolo della classe media”, Gli Asini, n°50, aprile 2018.

 

Giuseppe Cocco, “Il Brasile dopo l’omicidio di Marielle Franco”, Effimera, 25/3/2018.

 

Ivan Grozny Compasso, “Evangelico e omofobico, il Brasile ai tempi di Temer e del “Lava Jato””, il manifesto, 6/10/2017.

 

Claudia Fanti, “Lula accetta il carcere ma la lotta continua: “I criminali sono loro”, il manifesto, 8/4/2018.

 

Marielle Franco, “Ultime parole”, DinamoPress, 17/3/2018.

 

Frédérique Zingaro e Mathilde Bonnassieux, Brésil: le grand bond en arrière, Francia, 2016.

 

 

 

 

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