di Luciana Castellina
Tutti ci aspettavamo che le elezioni del 4 marzo sarebbero andate male per la sinistra. Ma nessuno si aspettava una sberla così forte, neppure chi, come me, aveva avuto modo di verificare, traversando l’Italia da nord a sud, come questa campagna elettorale risultasse la più difficile mai sperimentata.
Perchè questa volta più arduo era stato trovare persino le parole con cui comunicare con chi avvicinavamo per caso; e anche molto faticoso convincere quelli con cui invece avevamo qualche legame perchè erano stati sempre dalla nostra stessa parte.
Lo dico per far capire che quanto è accaduto è il frutto di uno smarrimento generalizzato di tutti i punti di riferimento che hanno tradizionalmente caratterizzato il quadro della politica del nostro paese, fino a confondere giudizi, orientamenti, valori. Proprio questo dimostra che quella che stiamo vivendo non è solo crisi della sinistra, ma ben più in generale, della democrazia. Se siamo infatti arrivati a questo risultato è anche perché non c’è più quel tessuto politico-sociale che i grandi partiti di massa offrivano un tempo al confronto, e dunque a un’analisi del presente e a una costruzione collettiva del progetto da proporre. Il solo voto, senza tutto questo, è troppo poco per far vivere la democrazia e porta invece alla ribalta solo un’agorà popolata da individuali grida di scontento o di plauso improvviso.
Non dico questo per eludere un’autocritica della sinistra, ma per sottolineare che abbiamo difronte un compito molto più arduo; e non solo in Italia
Qui in Italia abbiamo subito gli effetti devastanti dell’equivoco rappresentato da un partito, il PD, considerato – e ancora come tale definito dai media – di sinistra che ha invece ormai da anni compiuto scelte che hanno portato a uno scontro con chi aveva in passato rappresentato: i più poveri.
È accaduto con il Job Act che ha cancellato diritti che erano stati faticosamente conquistati, primo fra tutti lo Statuto dei lavoratori; con la modifica del regime pensionistico; con la ulteriore subordinazione della scuola alle esigenze dell’impresa; con una fiscalità sempre meno progressiva. E che, grazie alla linea «poliziesca» assunta dal ministro degli interni nella speranza di raccogliere un po’ di facile consenso, ha finito per collaborare a fomentare paure egoismi.
C’è da chiedersi come mai lo scontento che tutto questo ha prodotto non abbia portato voti a una sinistra che pure segnalava – è il caso della lista Liberi e Uguali – una novità molto significativa: la fuoruscita dal PD di una parte consistente e qualificata della sua leadership, si potrebbe dire quasi tutta quella proveniente dal PCI. Interessante non appariva infatti la critica a quanto quella leadership aveva finito per avallare il passato, ma, invece, che con il loro abbandono fragoroso del PD e l’adesione a un programma inteso a cancellare tutte le peggiori decisioni del governo Renzi, veniva finalmente e clamorosamente messo in discussione il PD.
«Sinistra Italiana» ha ritenuto che questo fatto, per nulla scontato, avrebbe scosso il vecchio corpo cresciuto, se non più dentro il vecchio PCI ormai sciolto da tempo, e però nella scia di quella cultura e tradizione. Ci siamo sbagliati, era ormai troppo tardi. Quel corpo, pur transitato attraverso tante fasulle reincarnazioni (PDS, DS, PD) rimanendo fedele a quello che hanno continuato a chiamare «il partito», a questo punto si è stancato. E si è rifugiato nel voto di protesta contro chiunque abbia occupato la scena politica in questi anni, anche se dall’opposizione.
Io sono tutt’ora convinta che alla scelta di LeU non ci fossero alternative, tanto meno quella di Potere al Popolo, allestita, assieme a qualche centro sociale, da Rifondazione Comunista dopo aver rifiutato l’ipotesi unitaria. Una protesta simbolica, che non ha ottenuto nemmeno la metà dei voti della disgraziatissima esperienza del 2013, quella capeggiata da Ingroia. Moltiplicare le sigle a sinistra produce – dovremmo saperlo – solo irritazione, non chiarezza. (Ce ne è così poca da aver indotto milioni di ex elettori di sinistra ad abboccare all’idea che basti a rendere rinnovatori una pletora di deputati sconosciuti e di cui nessuno ha potuto sperimentare capacità e doti morali visto che si sono autoproposti presentando i loro CV sul sito in rete della misteriosa società dell’oscuro capo reale del movimento 5 stelle, Casaleggio.)
Adesso, comunque, si tratta di ricominciare da capo, riflettendo tutti assieme sul che fare.
Non è facile, perchè la sinistra è stata forte quando è stata in grado di rappresentare interessi sociali certi e di dare loro capacità di creare conflitto e di indicare progetto. Per ritrovare capacità di rappresentanza sociale – che è la premessa di ogni ricostruzione della sinistra – bisogna esser consapevoli che assai più grave della disuguaglianza è la scomposizione della forza lavoro che si è verificata. Per questo non basta né un di più di denuncia e di protesta, né la ripetizione stanca di vecchie ricette keynesiane.
E anche l’ ammonimento a «ritrovare il rapporto col territorio», sistematicamente invocato, di per sé non basta: bisogna capire cosa vogliamo fare sul territorio, se inseguire il consenso, o invece ricostruire la soggettività necessaria a ricostruire un protagonismo collettivo fra lavoratori parcellizzati, a ridare a quelli della logistica, dei mille appalti cui le imprese ricorrono, ai «riders» e agli «uber», la forza che può venire solo da una ritrovata identità comune.
Per ricominciare ci vuole un partito capace di disegnare un progetto entro cui rendere possibile la mediazione necessaria a unifi care soggetti socialmente e culturalmente così diversifi cati, o questa è una forma ormai arcaica e non più proponibile, e, se invece no, deve trattarsi di un nuovo partito o è possibile ripartire da quanto con LeU abbiamo messo insieme? Sono questi i problemi che stiamo affrontando, e ci vorrà del tempo per sciogliere i nodi che si sono aggrovigliati. Nell’immediato sappiamo – almeno noi di Sinistra Italiana – che il centro sinistra non è ricostruibile, che il PD, anche senza Renzi, rappresenta ormai un altro blocco sociale. Sappiamo anche che un’alternativa di governo oggi non c’è, che potremmo tutt’al più approvare singole proposte eventualmente avanzate dai Cinque Stelle ove prevalga la improbabile ipotesi di un loro governo di minoranza, certo non concedere loro la fi ducia, anche perchè già si sono «evoluti» in un perfetto partito centrista, antitasse e insieme più spesa pubblica (Magari reinventano la DC!).
Sappiamo solo con sicurezza che per una lunga fase dobbiamo occuparci di ricostruire, assieme agli altri europei, la sinistra necessaria al nostro tempo.
E però tutto questo con ottimismo. Che ci viene non solo dalla consapevolezza che l’umanità non potrà sopportare di vivere così male, e dunque a un certo momento reagirà. Ma che ci viene sopratutto da chi ha già reagito e con straordinario vigore: dal movimento delle donne, il solo che cresce e appare vincente, che mostra di esser capace di grande mobilitazione. Nelle analisi del voto, e più in generale dello stato delle cose presenti, non viene citato mai. Eppure il suo nuovo protagonismo di massa è un dato enorme e una risorsa inestimabile. (Solo che la sinistra impari ad accorgersene).
Quaderno 15 / aprile 2018