C’è ancora posta per te?

di Gabriele Rossi

 

«Ohé, Sandrina, posta!» Cominciavano così molte delle mie mattine d’estate, in vacanza. Seduto al tavolo di cucina vedevo mia madre, la Sandrina, affacciarsi al piccolo pertugio fra le gelosie, accostate per tener fuori il caldo ma lasciar trapelare la luce del mattino.

Allora il ‘Chile, l’Achille postino, dalla stradina allungava, perché era relativamente piccolo, il giornale e le lettere o le cartoline, per poi scambiare due parole, salutare e salire infine verso l’ultima casa del piccolo villaggio.

 

Quanto valgono, in soldoni, questi momenti di ripetuta quiete, di amicizia fra conoscenti, di certezza del servizio, è chiaro ma anche, come si userebbe dire oggi colla mania che impazza per la cucina dei grandi chef, dell’impiattamento? Quanto valevano le vite trascorse in paese, con un mestiere sicuro, collaborando a creare quella base sociale che ne garantiva l’esistenza?

 

Se parliamo di performance, di utili ogni anno maggiori, di Dio solo sa quali altre diavolerie economico-finanziarie a vantaggio dei soliti, sull’altro piatto dobbiamo mettere molte piccole e grandi cose perse da tutti, che non parlano di progresso.

 

Però il cambiamento è inevitabile, affermano con sicumera i competenti. A noi restano i dubbi perché, come diceva un semplice operaio entrato in Gran consiglio cent’anni fa (allora succedeva anche questo), io non capisco niente di riforma fiscale ma so che se è un avvocato che la difende a me, operaio, conviene avversarla: poi mi spiegheranno come mai.

 

Ecco, aprendo il libro di Graziano Pestoni, La privatizzazione della Posta svizzera edito da Syndicom e dalla Fondazione Pellegrini Canevascini siete al punto in cui qualcuno vi spiega il perché; non solo, vi dice anche che il futuro non è necessariamente già tracciato, vi offre qualche attrezzo per consentirvi di lavorare in direzione contraria, vi lascia, dopo poco più di cento pagine, con un po’ di ottimismo, il che, nel mondo attuale, già non è poco. Cosa dice in fondo questo libro?

 

In tre pagine vi fa la storia, dagli inizi, quando il servizio era privato, complicato, lento e costoso. Poi, nel 1848, viene creata la Posta federale, tassello di quel movimento centralizzante voluto dai radicali, tendente a semplificare tutto quanto permettesse un migliore commercio, come l’unificazione dei pesi e delle misure, la moneta unica. Nel 1920 vengono costituite le PTT (Poste-Telefoni-Telegrafi), pubbliche. Gli utili di telefoni e telegrafi permettono di gestire un servizio posta su tutto il territorio, anche nelle estreme periferie.

 

Nel 1997 la Posta diventa azienda autonoma; i costi sono scaricati sui clienti o sulla Confederazione e i conti presentano cifre positive. I settori produttivi vengono privatizzati o aperti al privato mentre la Posta deve garantire il servizio universale ma nel contempo fare utili tagliando prestazioni e peggiorando le condizioni di lavoro. Non sono le nuove tecnologie che obbligano ai cambiamenti, si tratta di una precisa scelta politica.

 

La spinta in direzione di una strategia neo-liberale viene dall’Unione europea che, negli anni Settanta ha scelto questa strada sacrificando a essa sia la protezione dei lavoratori che il servizio pubblico, per non parlare degli ideali di coloro che la concepirono e sostennero. La Svizzera, però, non appartiene alla UE, quindi non è tenuta ad applicarne le leggi. Già, però lo fa: gli affari sono affari.

 

Pestoni ci presenta in seguito alcuni casi nazionali che mostrano come l’evoluzione sia del tutto simile ovunque. Certo vi sono delle liberalizzazioni (vale a dire che il mercato viene aperto a qualsiasi azienda privata) solo parziali (Canada 1973) o totali (Svezia 1993, Finlandia 1994, Argentina 1997, Gran Bretagna e Germania 2008, Olanda 2009 ecc.), le privatizzazioni, dove la Posta è separata dalle telecomunicazioni e trasformata in SA come in Italia nel 2014 o nel Portogallo l’anno prima.

 

Gli obiettivi principali di questa politica sono tre: offrire ai gruppi finanziari nuove possibilità di guadagno privatizzando i servizi già redditizi, rendere produttivi quelli ancora deficitari in modo da poterli poi privatizzare, aprire al privato ogni settore economicamente interessante. Il tutto funziona talmente bene che ci sono già diversi casi di ri-nazionalizzazione. L’autore ci offre una istruttiva escursione attraverso alcuni dei nostri vicini, Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna.

 

Più o meno a metà del suo percorso, il libro si concentra sulle nostre scelte. L’iter comincia nel 1996 colla presentazione al Parlamento delle 4 leggi elaborate dal Consiglio federale, approvate poi il 30 aprile 1997 ed entrate in vigore il primo gennaio successivo. Il mercato delle telecomunicazioni e della posta viene liberalizzato, le PTT lasciano il posto a due enti distinti, una società anonima per le telecomunicazioni e un ente autonomo di diritto pubblico per la posta. Una volta poi raddrizzata nei suoi conti, la Posta viene a sua volta convertita in SA il 7 dicembre 2010 e amen.

 

A sostegno dell’efficacia delle trasformazioni la Posta usa slogan efficaci: dobbiamo tener conto delle mutate abitudini della clientela; mette pure in evidenza l’aspetto di libertà individuale: fatti consegnare la posta dove ti pare, spedisci i tuoi pacchi da casa, ritirali quando vuoi. Senza parlare di costi, beninteso. Ma «le reazioni e le critiche sono intrise di emotività»; già, chiudono l’80% almeno degli uffici postali e noi, emotivi, lì a protestare invece di pensare alla riduzione dei costi di gestione, alla possibilità di vendere gli edifici e i sedimi!

 

Quali sono le conseguenze sul servizio pubblico e sulle condizioni di lavoro? Pestoni affronta dieci aspetti, cominciando dal cosiddetto «servizio universale», che obbliga la Posta a fornire determinati servizi. Passa poi alla situazione finanziaria, la cui tendenza positiva è, tra l’altro, fortemente influenzata da Postfinance. Si parla in seguito di distribuzione: i volumi di posta-lettere (in calo ma siamo ancora oltre i due miliardi di lettere), i prezzi, i più alti d’Europa, il degrado del servizio (tempi più lunghi, forti vincoli per i postini).

 

La rete degli uffici postali: costano, producono perdite (193 milioni nel 2016), ahia! E allora la Posta ripete il mantra, tener conto del cambiare delle esigenze del cliente: «Per la rete degli uffici postali continua ad essere negativo il comportamento della clientela che tende sempre meno a recarsi di persona allo sportello per fruire dei servizi postali» (rapporto finanziario della Posta 2004, p. 15). Peccato che dal 2008 al 2016 la frequenza media giornaliera negli uffici postali sia passata da 294 a 360 persone, mentre nelle agenzie da 34 a 29. Peccato pure che il deficit di 193 milioni sia solo un effetto contabile volto a creare le migliori condizioni per chiudere gli uffici postali, accelerando il trend con attività dissuasive, come sopprimere bucalettere.

 

Logistica, Posfinance, espansione all’estero sono altri capitoli della saga della Posta. Si arriva quindi alle condizioni di lavoro, dove il personale è solo un fattore di costo e si punta a togliergli anche il CCL. «Avevo 55 anni e facevo il lavoro di un ventenne. Guantànamo era meglio», «faccio anche molte ore straordinarie, che non mi vengono pagate», «non si può più dir niente. Eravamo una famiglia, oggi siamo in competizione tra un team e l’altro», «aumenta il numero degli ammalati»: sono solo alcune delle affermazioni contenute nelle interviste di Lavorare stanca, edito dall’USS nel 2016.

 

Il libro si chiude con due temi: l’interrogativo a sapere se la Posta è ancora un servizio pubblico e gli scenari per il futuro. Pestoni ricorda che un’azienda pubblica deve essere controllata e gestita in modo democratico e privilegiare la qualità del servizio all’ottenimento di profitti. La risposta alla prima domanda è dunque no. Riprendendo quanto aveva già scritto in Privatizzazioni (pubblicato da FPC e SSP nel 2013), l’autore analizza le tre categorie coinvolte nel processo di cambiamenti: i rapaci, i mercenari e i modernisti.

 

Con tre esempi (la Novartis e l’epatite C, la Syngenta e il suo passaggio a Chem-China, l’UBS salvata dal denaro pubblico e pochi anni dopo coinvolta in pratiche illegali) Pestoni spiega la differenza tra l’agire di un’azienda privata e di una pubblica. Letto questo ci si chiede, sorpresi, come mai prevalga ancora il privato; sembra di vivere in diretta uno tsunami che tutto travolge e lascia poi dietro di sé danni e distruzioni. Tutto ciò alimenta nelle popolazioni un sentimento di impotenza. Ogni cambiamento viene vissuto come il naturale prolungamento di quanto già applicato. I valori di mercato pervadono tutta la nostra vita.

 

Di fronte a ciò si può restare a guardare e tale atteggiamento porterebbe alla fine della Posta. Organizzare una resistenza permette invece di limitare i danni o di procrastinarli. Bisogna invece tornare a un vero servizio pubblico, ma per far questo l’obiettivo deve essere uscire da una società dove prevalgono individualismo, disorientamento e tristezza. Significa anche distanziarsi dalle decisioni dell’UE neo-liberista e anche del nostro Consiglio federale, che in materia non è da meno. «In ogni modo» conclude Pestoni «le scelte che faremo a partire da oggi, decideranno che tipo di società e di mondo ci sarà».

 

 

 

 

Quaderno 15 / aprile 2018