Abbattere il tabù dell’Unione europea

di Damiano Bardelli

 

"Parte della sinistra, purtroppo, continua a guardare con simpatia all'Unione europea, a riconferma dello scollamento sempre più evidente tra socialdemocrazia e popolazione. Da noi il PSS sostiene ancora l'adesione della Svizzera all'UE, mentre in Italia il PD e le altre formazioni del centro-sinistra sono succubi dell'ideologia dell'europeismo.

Ma c'è anche chi propone un cammino diverso. Nel Regno Unito, il Labour di Corbyn è sulla cresta dell'onda da quando ha abbandonato il dogma dell'UE ad ogni costo."

 

Il pessimo risultato delle forze progressiste alle recenti elezioni politiche italiane, per quanto eclatante nella sua portata, non ha sorpreso nessuno. Diversi commentatori avevano da tempo previsto la sconfitta del centro-sinistra, sia nella sua variante di governo (il PD) che in quella d’opposizione (Liberi e Uguali).

 

Tra le principali ragioni di questa débâcle, è inutile nasconderlo, bisogna contare l’impopolarità delle politiche portate avanti dal PD e dagli esponenti di LeU implicati in ruoli di responsabilità nell’ultima legislatura. Per rilanciarsi e tornare ad ambire a governare il paese, la sinistra non può limitarsi ad additare le recrudescenze razziste del contesto italiano, ma deve fare un sano lavoro di autocritica e ridefinire i propri obiettivi. In particolare, deve riconoscere lo scollamento sempre più evidente che la separa da quelle classi sociali – salariat*, precar*, disoccupat* – che sono la sua ragion d’essere. In questo senso, il progetto di Potere al Popolo non può che far piacere.

 

Ma veniamo a uno degli elementi più evidenti di questo scollamento: la questione dei rapporti con l’Unione europea. In questi cinque anni di governo, e ancor di più nel corso di questa campagna elettorale, il centro-sinistra ha dimostrato di essere succube dell’ideologia dell’europeismo, diventata ormai vera e propria religione, dogma irrinunciabile e non discutibile della sinistra liberal non solo italiana, ma di tutto il continente europeo. Un’ideologia che, come espresso da G. Santomassimo dalle colonne de «il Manifesto» (11 marzo), è ormai «potentissima e pervasiva, un fronte politico e culturale vastissimo, convinto che ‘più Europa’ sia la soluzione ai problemi che l’Europa stessa ha posto con la sua folle attuazione».

 

Come ci ricorda l’economista Frédéric Lordon, un europeismo fine a sé stesso, il cui unico obiettivo sia l’integrazione continentale perseguita attraverso gli organi già esistenti dell’Unione europea, è una prospettiva distruttiva per tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro nazionalità («Le Monde diplomatique», dicembre 2017). Perché, come dimostrato dalle politiche portate avanti da formazioni come il PD, sull’altare dell’europeismo si è disposti a sacrificare tutto: le disuguaglianze crescenti, il precariato, il dumping, e tutte le altre conseguenze del sistema economico neoliberista promosso dall’UE.

 

Se la socialdemocrazia europea non ripenserà i suoi rapporti con l’UE e continuerà a sacrificare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori a quest’ultima, la sua discesa agli inferi sarà inarrestabile. E purtroppo non si intravedono cambiamenti all’orizzonte, sia che si parli per esempio dell’Italia (dove, nei giorni scorsi, l’organo di stampa ufficioso del Pd, Repubblica, identificava le «ragioni di esistere» del centro-sinistra nella «fedeltà totale alla UE, rispetto dei Trattati e impegno assoluto a non eluderli in modo unilaterale») o della Germania (dove la SPD ha recentemente rinnovato la pluriennale alleanza di governo con la destra in nome, tra le altre cose, della «stabilità europea»).

 

E non che le cose in Svizzera vadano meglio. Ricordiamo che il PSS, nella sua risoluzione «Feuille de route UE» (dicembre 2016, la più recente sul tema), si vanta di essere «l’unico grande partito [del paese] a pronunciarsi da anni in favore di un’apertura della Svizzera, della normalizzazione dei rapporti con l’UE e di un’adesione completa a quest’ultima». Linea purtroppo sposata in pieno anche dalla JUSO, come confermato dall’ex-leader dei giovani socialisti (oggi consigliere nazionale) Fabian Molina, che in una recente intervista al Tages Anzeiger (19 febbraio) affermava: «la Svizzera appartiene all’UE» (sic!). Inutile aggiungere che se avesse optato per la formula «la Svizzera appartiene all’Europa», il messaggio sarebbe stato ben differente…

 

L’unica eccezione, tanto per cambiare, è rappresentata dal Labour di Jeremy Corbyn. Proprio mentre formazioni come LeU in Italia e il PS in Svizzera continuano a martellare il mantra «più Europa», Corbyn non si fa problemi a dire «basta Europa». E non lo fa per partito preso, ma per pragmatismo. Di fronte al progetto di accordo economico post-Brexit partorito dalla Commissione europea (nel quale viene sancita l’impossibilità, per qualunque futuro governo britannico, di introdurre delle misure di regolamentazione della libera concorrenza al di sotto dei livelli attuali, anche in settori chiave come i trasporti, la protezione dell’ambiente e la socialità), il leader laburista respinge la logica dell’europeismo ad ogni costo. Logica che, qualora dovesse accedere al governo, gli impedirebbe di implementare delle politiche di rinazionalizzazione del servizio pubblico e di ridistribuzione della ricchezza.

 

Serve quindi a poco dire «facciamo come Corbyn» (attitudine simboleggiata dal tentativo grottesco di LeU di riprendere lo slogan del Labour «Per i molti, non per i pochi»), se poi non si vanno a vedere le politiche concrete su cui si basa l’attuale successo del Partito laburista. Successo costruito, tra le altre cose, proprio sulla rimessa in discussione dell’UE.

 

Chi poi a sinistra si illude che l’UE possa cambiare, vive nella più totale utopia. Ogni minimo tentativo di riforma del progetto europeo si scontra necessariamente con il dispositivo ideologico e istituzionale dell’Unione. La subordinazione di tutte le sue politiche alla logica della «concurrence libre et non faussée» (formula comunemente usata per riassumere il nocciolo della dottrina economica del Trattato di Lisbona) è sancita non solo dai suoi diversi trattati, ma anche dalle decine di migliaia di pagine che costituiscono i cosiddetti «acquis comunitari» (direttive, regolamenti, decisioni ecc., insomma: la «giurisprudenza» dell’UE) ai quali i membri dell’Unione devono obbligatoriamente sottostare.

 

Il PSS, anziché illudere (o ingannare) i propri elettori sventolando la promessa di ingaggiarsi «come membro del Party of European Socialists (PES) per una UE sociale, ecologica e più democratica» (sempre dalla «Feuille de route UE»), dovrebbe ammettere che una tale UE non può esistere, perché contraria alla sua stessa natura.

 

L’unica soluzione, per la sinistra, è abbattere il tabù dell’Unione Europea. Solo così si potrà costruire, sul lungo termine, una nuova Europa dei popoli, sociale, ecologica e veramente democratica.

 

 

 

 

 

Quaderno 15 / aprile 2018