DIRETTAMENTE DA GAZA - Michele Giorgio
«Queste manifestazioni sono resistenza non violenta e popolare. Famiglie, donne, ragazzi preoccupano Israele perché è una resistenza che non può battere». Così la scrittrice Suad Amiry in un'intervista di qualche giorno fa ha spiegato la "Grande Marcia del Ritorno".
La "Grande Marcia del Ritorno", le proteste di migliaia di palestinesi a ridosso delle linee di demarcazione tra Gaza e Israele, in corso dal 30 marzo. e i motivi della repressione violenta, oltre 110 morti e migliaia di feriti, messa in atto dall'esercito israeliano.
Amiry si è fatta portavoce di due milioni di palestinesi che vivono come dei prigionieri nella Striscia di Gaza, costretti in tutto e per tutto a fare i conti con il blocco attuato da Israele per 11 anni.
Il governo Netanyahu dipinge le manifestazioni come una campagna dal movimento islamico Hamas per compiere attentati all'interno del territorio israeliano. Se da un lato è visibile il ruolo degli islamisti nella "Grande Marcia del Ritorno" e il loro tentativo, specie in questi ultimi giorni, di rivendicarne la guida per ragioni di opportunità politica, dall'altro i palestinesi di Gaza andrebbero comunque a manifestare, semplicemente perché la loro vita è un inferno. «Le motivazioni sono umanitarie e politiche allo stesso tempo», spiega Khalil Shahin, vice direttore del Centro palestinese per i diritti umani di Gaza city, «il mondo crede che qui a Gaza sia tutto legato ad Hamas e ha abbandonato al loro destino due milioni di persone che non hanno libertà di movimento e vivono in condizioni spaventose, con poca elettricità, acqua che non è potabile per gli standard internazionali, senza lavoro, con una emergenza ambientale e un sistema sanitario al collasso.
La gente di Gaza sopravvive in gran parte grazie agli aiuti umanitari e migliaia di famiglie vivono ancora in alloggi di fortuna dal 2014, dall'ultima grande offensiva militare israeliana». Più di tutto, aggiunge Shahin, «noi palestinesi reclamiamo il nostro diritto alla libertà, all'indipendenza, alla fine dell'occupazione israeliana. E anche se non ci fosse Hamas, scenderemmo ugualmente in strada a protestare. Non è una questione di partiti politici, ma di diritti, di principi da rispettare e di dignità».
La preoccupazione in queste ore dei palestinesi di Gaza è che lo sdegno internazionale causato dall'ultimo massacro, quello del 14 marzo (almeno 65 morti), compiuto dai tiratori scelti dell'esercito israeliano, sia destinato ad affievolirsi con il passare dei giorni, senza che nulla sia fatto per risolvere una situazione insostenibile. «Gli occidentali ogni tanto fingono di preoccuparsi per noi, poi fanno quello che vuole Israele», commenta con amarezza Aziz Kahlout, del campo profughi di Jabaliya.