Lettera aperta all’on. Ignazio Cassis

di Nora Bardelli Dottoranda al Refugee Studies Centre, University of Oxford

 

La presa di posizione del Ministro degli Esteri riguardo all’UNRWA e ai rifugiati palestinesi al rientro dal suo viaggio in Giordania appare estremamente problematica per vari motivi.

Egregio Consigliere Federale Ignazio Cassis,

 

Mi permetto di scriverle come cittadina svizzera, ticinese, ed esperta di migrazioni forzate. Ritengo la sua presa di posizione riguardo all’UNRWA (agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) e ai rifugiati palestinesi al rientro dal suo viaggio in Giordania, estremamente problematica per vari motivi.

 

Innanzitutto, lei sembra partire dal presupposto che decidere di tenere dei rifugiati in campi profughi invece che integrarli in città o in villaggi sia una decisione presa unilateralmente da UNRWA, e quindi dall’UNHCR (l’alto commissariato dell’ONU per i rifugiati) negli altri contesti di migrazioni forzate, facilmente presa e altrettanto facilmente modificabile.

 

È da quando esiste la disciplina di "studi dei rifugiati e delle migrazioni forzate", quindi dagli anni 1980, che esperti sottolineano quanto la soluzione migliore per i rifugiati, che siano in situazione estremamente temporarie o prolungate, sia sempre l’integrazione tra le popolazioni locali. In maniera simile, gli esperti all’interno delle varie agenzie ONU che si occupano di rifugiati, hanno iniziato a sostenere una politica di "alternative ai campi" già dall’inizio degli anni 1990 – la prima politica ufficiale dell’UNHCR sulle alternative ai campi risale al 1997. Tutti gli esperti – accademici e professionisti umanitari – sono d’accordo che per i rifugiati stessi la miglior soluzione è essere integrati nelle comunità locali. Questo indipendentemente dalla prevista durata della crisi e dell’esilio. Se lei dovesse scegliere se trascorrere tre mesi in una tenda o in un appartamento, cosa sceglierebbe? Chiaramente se i campi profughi esistono ancora, per i rifugiati palestinesi come per centinaia di migliaia di rifugiati nel mondo, le ragioni sono altre. E queste vanno dagli interessi economici degli stati donatori ad agenzie come l’UNRWA e l’UNHCR, alle richieste degli stati ospitanti, a questioni di sicurezza (compresa quella dei rifugiati stessi: in certe zone la popolazione locale può essere molto ostile ai rifugiati, e integrarli non è possibile a causa di potenziali violenze e abusi). E molte altre ancora, che lei come ministro degli affari esteri dovrebbe conoscere, soprattutto se decide di dare consigli al riguardo.

 

Leggendo le sue dichiarazioni, si ha l’impressione che lei non sia correttamente informato sul funzionamento e il finanziamento di UNRWA. La Svizzera contribuisce, certo, ma gli USA lo fanno in modo più significativo. Con i tagli effettuati da Trump, che hanno lasciato l’agenzia in enormi difficoltà, come crede che si possano chiudere i campi e "integrare" i rifugiati? Chiunque si occupa di questi temi sa che questi processi sono molto più costosi che tenere i rifugiati nei campi.

 

Per "integrare" i rifugiati, oltre alla volontà della popolazione ospitante ci vogliono anche leggi favorevoli. Un Ministro degli affari esteri non può permettersi di dire che l’UNRWA impedisce la pace perché continua ad offrire assistenza ai rifugiati palestinesi. "Integrazione" è una parola valigia, che vuol dire tutto e niente, e se davvero si vuole parlare di integrazione efficace, è necessario rendersi conto che questo è un processo molto complesso che la Svizzera non può semplicemente promuovere spostando fondi. Se fosse tutto così semplice si sarebbe già fatto da tempo. Dietro a decisioni come "tenere i rifugiati in campi o no", ci sono dinamiche geopolitiche non semplici da risolvere, e soprattutto queste decisioni, quando riguardano luoghi fuori dall’occidente (come la Giordania e la Palestina), sono enormemente influenzate dai nostri governi. Il suo commento al rientro dal viaggio in Giordania è estremamente riduttivo, e non tiene minimamente conto di decenni di ricerche al riguardo, ma soprattutto di decenni e secoli di storia e dinamiche geopolitiche che non si risolvono con la sua "buona volontà".

 

Infine, trovo la sua presa di posizione pesante poiché delegittima la causa e il popolo palestinese, e sostiene che l’assenza di pace sia dovuta alla non integrazione dei rifugiati palestinesi in Giordania e ai programmi di UNRWA. Mi allarma il fatto che il nostro Ministro degli affari esteri abbia una visione così riduttiva e semplicistica della "pace", e specialmente di quella legata al conflitto israelo-palestinese. Preferirei sentire dal nostro Ministro degli esteri che la vita di queste persone ha un valore e che il nostro governo è cosciente degli abusi, dei soprusi, e dei massacri che sono perpetuati da Israele (e quindi tutti gli stati che sostengono Israele, Svizzera compresa) verso i palestinesi da 70 anni, se vuole aiutare il "processo di pace". Il problema nel processo di pace tra Israele e Palestina è che in realtà non è un processo. Non c’è dialogo, ma c’è solo confronto violento, oppressione, massacro, occupazione, apartheid. Non è un processo di pace poiché i palestinesi non sono mai stati ritenuti alla pari di Israele nella negoziazione di una risoluzione, sono sempre e solo stati schiacciati, ignorati, eliminati. E che non si possa parlare di processo di pace lo abbiamo visto per l’ennesima volta nei giorni scorsi quando Israele ha massacrato gratuitamente quasi sessanta civili. E soprattutto lasciamo a queste persone, che non sono burattini senza voce della comunità internazionale, la facoltà di decidere quando smettere di sperare di tornare a "casa".