Le virtù dimenticate del debito pubblico

di Laurent Cordonnier, Maître de conférences in economia all’Università Lille-I.

 

Diciamolo subito in modo chiaro e tondo, anche a costo di sorprendere: non esiste alcuna ragione suprema che giustifichi che lo Stato s’indebiti.

Quest’ultimo, come le imprese, le società, le cooperative, etc., produce dei beni e dei servizi di cui noi giudichiamo l’utilità; e, se questi beni hanno un costo, vanno pagati in un modo o nell’altro.

 

In questo senso, le imposte servono a pagare i nostri beni pubblici o i nostri beni comuni nello stesso modo in cui i nostri pagamenti alla cassa del supermercato servono a coprire i costi di fabbricazione dei prodotti che comperiamo – la cui utilità è a volte dubbia… Con il vantaggio che per i beni pubblici (la cui definizione e estensione vanno decisi democraticamente) il loro costo non è gravato da un profitto che finirà nelle tasche degli azionisti.

 

L’indebitamento dello Stato può essere giustificato non solo dall’utilità dei beni e dei servizi da finanziare, ma anche da delle considerazioni di second’ordine… le quali possono comunque avere la loro importanza.

 

La prima ragione che potrebbe giustificare il ricorso al debito (anziché alle imposte) deriva dalla preferenza dei cittadini per lo scaglionamento dei pagamenti. I cittadini, come i consumatori che comprano dei beni di lunga durata, potrebbero preferire di non pagare tutto subito, tramite le imposte, per la produzione di infrastrutture, di servizi d’educazione, di sanità, di giustizia, di mantenimento dell’ordine, etc., i cui benefici saranno scaglionati nel tempo. Il fatto di pagare con un’imposta differita nel tempo dei servizi o dei benefici generati da questi investimenti pubblici al momento in cui ce n’è concretamente bisogno (in termini di benessere, di reddito o di risparmio sulle spese pubbliche), anche se appesantiti da un tasso d’interessi, può essere giudicato più vantaggioso che un pagamento immediato.

 

Questo scaglionamento nel tempo sarà tra l’altro preferibile per i ricchi (nella misura in cui i governi fanno gravare le imposte principalmente su di loro anziché sui poveri) a condizione che l’aumento previsto per le loro imposte sia inferiore alle prospettive di reddito dei loro risparmi.

 

La seconda ragione che può giustificare un deficit delle finanze pubbliche – e il ricorso al debito che ne consegue – è la necessità di regolare la congiuntura economica. In caso di recessione o di attività insufficiente che non garantisce il pieno impiego, il governo è tenuto ad ingaggiare subito delle spese d’investimento per aumentare la domanda diretta alle imprese, ma senza far diminuire la domanda prelevando immediatamente le imposte. Se queste spese riescono a dinamizzare l’economia, con un effetto moltiplicatore ormai riconosciuto anche dai sostenitori dell’ortodossia più rigida, il pagamento ulteriore delle imposte da parte dei cittadini sarà ulteriormente facilitato.

 

A differenza dalla prima ragione, il bisogno di regolare la congiuntura economica non sembra giustificare a priori un indebitamento permanente… A meno che la domanda globale non sia costantemente insufficiente, impedendo di far girare correttamente le imprese – un’ipotesi assolutamente plausibile e che permette di spiegare l’accrescimento del debito pubblico negli ultimi trent’anni.

 

La sovrabbondanza di risparmi a livello mondiale, legata alla crescita del finanziamento delle pensioni tramite capitalizzazione (anziché tramite ripartizione) e ai tassi di profitto esorbitanti reclamati alle imprese dagli azionari, genera in modo strutturale una sotto-consumazione che non è compensata dalle spese d’investimento delle imprese. Che interesse avrebbero queste ultime ad investire se la sovrabbondanza di risparmi ha per effetto di ridurre i loro sbocchi? Da trent’anni, lo Stato ricopre il ruolo di “spenditore di emergenza” per evitare che le imprese collassino e per permettere ai risparmiatori – che creano il debito pubblico – di trovare qualcuno a cui prestare!

 

 

 

 

Fonte : Manuel d’économie critique, Editions Monde diplomatique