Investimenti massicci della Cina nella ricerca

di Franco Cavalli

 

Negli Stati Uniti è tutto un susseguirsi di proteste, anche di piazza, degli scienziati contro il prevalere di una mentalità anti- scientifica nell’amministrazione Trump e contro i previsti tagli ai programmi di ricerca.

Tutto il contrario sta invece avvenendo in Cina, e sono sempre di più le voci quindi che a Washington si lamentano che in un futuro non troppo lontano il gigante asiatico potrebbe sorpassare gli Stati Uniti anche in questo settore.

 

Nel 2013, la spesa destinata da Pechino alla ricerca ha superato per la prima volta il budget stanziato dall’Europa, arrivando a contare il 20% di quanto sborsato a livello mondiale. Stiamo parlando di una somma di oltre 276 miliardi di dollari destinati al sostegno economico alla ricerca e allo sviluppo, pari a quasi il 2.2% del PIL e quindi proporzionalmente in linea con quanto si fa nei paesi più sviluppati.

 

Il gigante asiatico guida ormai la classifica mondiale per numero di studenti universitari iscritti in ingegneria e ai corsi scientifici, incluse le biotecnologie. È dal 2005 che Pechino pianifica la propria ascesa, con l’obbiettivo di accelerare la «modernizzazione socialista» e trasformare la repubblica popolare in un importante centro di innovazione entro il 2020. Secondo pubblicazioni recenti, sembrerebbe che Pechino punti a diventare il primo centro per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale entro il 2035.

 

Questi sforzi vanno letti alla luce del nuovo modello economico orientato verso una crescita qualitativa (anziché quantitativa) e che impone l’archiviazione del vecchio «made in China». Non a caso sono state proprio le provincie più povere del paese a essere state prescelte come centri propulsori della rivoluzione tecnologica.

 

A tutto questo quadro vanno aggiunti progetti mastodontici come quello dell’esplorazione spaziale: se tutto va bene, una sonda cinese dovrebbe adagiarsi alla fine dell’anno sul lato oscuro della luna, un tipo di allunaggio che finora non è mai stato realizzato da nessuno. Non c’è dubbio che la Cina intenda trasformarsi in una potenza spaziale, capace di fare innovazioni scientifiche in maniera indipendente, e anche qui in grado di concorrenziare l’egemonia americana.

 

Anche nel campo della fisica delle particelle, la Cina sta facendo progressi da gigante: nel 2020 entrerà in funzione nella provincia cinese del Guang Dong un gigantesco rivelatore di neutrini, simile a quello esistente all’interno del Gran Sasso in Italia. Ma un laboratorio ancora più grande, simile un po’ a quello del CERN di Ginevra, è previsto nella provincia di Sichuan, nel sud-ovest della Cina.

 

Tutto ciò fa parte di quel piano lanciato nel 2015 dal governo cinese, che entro il 2049, centenario della repubblica popolare, dovrebbe fare della Cina il primo paese al mondo in settori come l’informatica, le telecomunicazioni e le biotecnologie.

 

Non c’è quindi dubbio alcuno che Washington abbia molte buone ragioni di preoccuparsi per il possibile tramonto dell’egemonia americana, anche in questo settore.

 

C’è da sperare che, come purtroppo è capitato altre volte nella storia, questo sentimento non porti a qualche colpo di coda, cioè a scatenare operazioni militari per fermare l’avanzata cinese, cercando perlomeno di rallentare il proprio declino.

 

 

 

 

Quaderno 15 / aprile 2018