Dejen de hablar por nosotras: Abortire è decidere sul proprio desiderio, maternità e vita

di Eleonora Selvatico

 

Argentina. Con 129 voti a favore e 125 contrari, la Camera dei Deputati ha approvato alle 9:51 del 14 giugno 2018 il progetto d’Interruzione Volontaria di Gravidanza formulato in più di trent’anni dai movimenti femministi argentini, dopo una sessione di 22 ore.

Una maratona abbracciata dalla marea verde fuori dal Congresso, un movimento transfemminista e disobbediente che continua ad abitare massivamente in stato d’allerta le strade dal 2015 contro la violenza machista - questa volta al grido “Occupiamo la notte” liberatore di quella forza che dal basso si sta esercitando sul sistema rappresentativo che, come ha scritto Véronica Gago, non ha potuto immunizzarsi. Dislocando l’asimmetria delle forze pro-vita e pro-aborto nella Camera (e quella imposta dal governo fuori dalla Camera; foto), nelle strade i corpi hanno messo in scena la realtà, rivalorizzando le lotte storiche che sopravvivono al disprezzo oficialista.

La media sanción – poiché s’aspetta ora il turno del Senato - è un passo storico nella faida per la sovranità dei corpi femminizzati, moralizzati, violati, disprezzati, infantilizzati e tutelati, cioè storicamente considerati non idonei a decidere sui propri corpi e sulle proprie vite, come ha ricordato Marta Dillon ieri, 19 giugno, all’incontro nella Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna. No hay vuelta atrás. Nuestra verdad es que no estamos solas. Non si torna indietro, perché ormai quest’alleanza di corpi del femminismo popular [nel senso d’ospitale – e appropriabile - per chiunque] che Lo mezcla todo ha aperto una nuova finestra festosa sul futuro e, facendo tanto politica che storia, ha generato nuove forme d’esistenza collettiva.

 

Tra le fondatrici tanto di H.I.J.O.S. che del collettivo Ni una menos, Marta Dillon si presenta come una giornalista di Página12, madre, nonna, lesbica e sieropositiva. Qui di seguito la traduzione dallo spagnolo del suo intervento del 22 maggio 2018 alla Camera dei Deputati.

Molte grazie per l’opportunità di stare qui.

 

Non sono qui sola. Ho portato qui con me il sostegno delle mie compagne del collettivo Ni una menos e la memoria di chi ha lottato anteriormente per aprire orizzonti vitali e libertari per tutte. Vorrei nominare specialmente Laura Bonaparte - Madre della Piazza di Maggio e femminista, una delle prime Madri della Piazza che ha portato oltre a quello bianco, anche il fazzoletto verde che noi sorelle indossiamo oggi trasversalmente nei quartieri, nelle villas, nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro -, Lohana Berkins – amatissima amica travesti che ha fatto suo il femminismo e la domanda per l’Aborto Legale – e Dora Colodesky - fondatrice tra altre della Campagna Nazionale per l’Aborto Legale, Sicuro e Gratuito della quale citerò alcune parole: “Ci sbagliamo se vogliamo che la nostra rivendicazione sia solo per le donne che non possono accedere a un aborto sicuro. È qualcosa di più profondo, che tocca l’uguaglianza, la democrazia, la libertà. Nessuno può sostituirci nelle decisioni che ci coinvolgono, perché [queste decisioni] sono in relazione con la nostra vita, con i nostri sentimenti, con la nostra responsabilità in quanto esseri umani. Eppure, non siamo mai state consultate – come se non fossimo cittadine”.

 

Abortire è una decisione vitale che abbiamo preso anche se contro la legge che finora rifiuta di nominarci. L’abbiamo presa in clandestinità, a costo di mettere a rischio le nostre vite, perché la nostra vita e la nostra libertà ad ogni modo sono in gioco; e la libertà la s’insegue, anche a costo della vita.

 

Nel corso di questo dibattito – che si estende molto più in là di questo recinto [Camera dei Deputati] – s’è parlato, per esempio, d’individuare le adolescenti che potrebbero essere a rischio di rimanere incinte per agire su di loro ed evitarlo. Al di là che ciò sia fattibile o meno: è possibile pensare che forse qualcuna di queste adolescenti possa desiderare di rimanere incinta? Sulle donne, soprattutto su quelle che hanno meno risorse economiche, c’è sempre un dito puntato: o rimangono incinte per avere dei sussidi o sono incoscienti perché partoriscono come coniglie. Quelle che hanno deciso di non partorire sono riluttanti e/o non efficaci nella contraccezione e ciò che cerchiamo è d’acchiapparci un uomo. A noi-altre ci spetta sempre l’animalità; siamo umanizzate solo quando c’incastriamo nei progetti estranei [, decisi e creati da altri].

 

Quando più di venticinque anni fa ho ricevuto la notizia che stavo vivendo con l’HIV e ho manifestato nell’ospedale dov’ero ricoverata [il desiderio] di voler avere un altro figlio, m’hanno trattata praticamente come una cagna senz’anima. Ho saputo che se avessi voluto far sesso con uomini, loro avrebbero dovuto usare dei preservativi. Come una pura ottimista, ho pensato che [con questa informazione] m’avevano anche dato la buona notizia che, in piena crisi d’AIDS, almeno la contraccezione sarebbe diventata una responsabilità condivisa. Illusa. Che ci piaccia o no, il preservativo continua a essere una negoziazione complicata.

 

Ni perras, ni zorras, ni yeguas ni conejas. Allontanate i vostri terrori dai nostri corpi. Noi-altre abbiamo il potere di gestazione o di non gestazione. L’aborto legale riguarda le nostre decisioni e i nostri desideri, i nostri progetti vitali e anche il riconoscimento che tutti e tutte siamo vulnerabili. Che tutti e tutte abbiamo – o avremo – bisogno di cure e sostegni rispettosi e amorosi per realizzare i nostri progetti. Come un’adolescente che vuole portare avanti la sua gravidanza. Come una che non la desidera. Come una madre capace di partorire molti figli e figlie. Come altre, che non ne vogliono avere più.

 

Abortire – abbiam sempre abortito: dall’inizio della storia dell’umanità, con la sapienza dei calderoni delle streghe. Tra noi-altre. Tenendoci per mano nell’oscurità. Aprendo spazi di libertà dove le nostre decisioni hanno potuto essere nominate. Però ora non vogliamo più la vita ai margini. Ora diciamo “aborto” - e l’abbiamo detto dappertutto. E ogni volta che lo nominiamo, ogni volta che questa parola circola apertamente - legalmente come pretendiamo – abilitiamo molte altre conversazioni. Abbiamo anche abilitato la possibilità di pensare a come mettere in pratica delle cure collettive. Abbiamo abilitato il pensiero d’altre maternità e paternità possibili, perché quando si può dire “no”, [allora] si può anche dire “sì”.

 

Dietro l’impossibilità dell’aborto, della sua illegalità, c’è la condanna alla sessualità come godimento senza fini utilitaristici, come sperimentazione di quello che può un corpo, di quello che meritiamo, di quello che vogliamo, della fragilità alla quale siamo esposte ed esposti e della necessità d’un rifugio in questo momento di spossesso che significa “avventurarsi in un altro corpo”.

 

Dire “aborto” ad alta voce, farlo uscire allo scoperto, esigere la sua legalizzazione, complottare contro l’isolamento di questo sistema di colpa e punizione che si traduce nel lapidario “ora te lo tieni”, senza domandarci se il coito è l’unica pratica possibile, tante volte imposta con violenza. “Occupatene” come anticipazione al “partorirai con dolore” che altresì ci fanno pagare trasformando i nostri corpi in superfici dove intervenire, corpi desoggettivati: tutte mammine, tutte piene di merletti, a letto, obbedienti e silenziate. Partorire come detta il potere medico, che occulta il nostro proprio potere di dividerci in due e che nega i saperi che hanno i nostri corpi.

 

Se partoriamo accovacciate siamo come “scimmie”, se vogliamo partorire in casa siamo “pazze” o “assassine”, se gridiamo “isteriche”, se vogliamo che non ci toccano o se preferiamo stare al buio – come da sempre si partorisce nelle comunità del nostro Nord – “animaletti incoscienti”. Però, come abbiamo detto nelle strade, “Noi-altre partoriamo, noi-altre decidiamo”.

 

https://www.youtube.com/watch?v=37beXlvIJyU

 

Siamo stufe che parlano per noi-altre. Emanciparci dalla violenza machista e recuperare la sovranità sui nostri corpi e le nostre relazioni è un’unica azione. Per questo abbiamo anche detto che “Dentro l’armadio non torneremo mai più” [salir del armario è il corrispettivo del coming-out anglofono]. Nunca más l’oscurità dell’aborto clandestino. Nunca más indebitarci per ottenere i medicinali necessari per abortire in modo libero e sicuro. Nunca más le nostre vite come ostaggi del mercato e dei poteri che ci vedono solo come confezioni incubatrici di progetti altrui.

 

Nel giugno 2015, siamo scese per la prima volta in strada a gridare “Non una di meno” per fermare l’emorragia d’una donna o d’una travesti assassinata ogni giorno in questo paese. Questo grido è anche “Non una di meno” per ogni aborto clandestino – un femminicidio di Stato.

 

Le mobilizzazioni femministe massive, concepite dall’esperienza d’oltre trent’anni d’Incontri Nazionali di Donne e nutrita dai tredici anni d’esistenza dalla Campagna Nazionale per l’Aborto Legale, Sicuro e Gratuito, non hanno fatto che crescere. Irriverenti, ribelli, intergenerazionali: ci siamo sollevate in ogni territorio, dal più vulnerabilizzato al più benestante. Abbiamo percorso insieme le soglie della tolleranza alla violenza machista; l’abbiamo fatto in molte lingue. Abbiamo dato alla nostra forza i molti colori che incarniamo e ben presto, per la quarta volta, diremo ancora nelle strade “Non una di meno”.

 

Questo è il nostro modo per dire “Ora basta”. Basta con le arrestate dalle forze [di sicurezza] nelle strade. Noi donne siamo state le prime ad aver fatto uno sciopero generale contro il governo di Macri nel 2016. Non siate indifferenti alle voci che giungono dalla strada fino a questo luogo chiuso, perché all’armadio della clandestinità non ritorneremo mai più. Alla negazione del nostro desiderio, a questa oscurità, non siamo disposte a tornare. Vogliamo l’Aborto Legale e vogliamo la fine della violenza machista, in tutte le sue forme. I nostri corpi contano. Non una di meno. Vive, libere e desideranti ci vogliamo.