di Franco Cavalli
Il Caso…, edizioni Albatros 2015, è un libro parecchio particolare: all’inizio ho avuto qualche difficoltà ad entrarvi, ma poi mi ha affascinato.
Le difficoltà iniziali nascevano probabilmente dal fatto che Assunta Antonini, nata a Roma nel 1953 ed economista di professione, non è una scrittrice. Pubblica qui uno scritto autobiografico e lo fa soprattutto per tener fede a una promessa fatta in una situazione molto particolare a suo figlio Carlos Manuel.
Il libro racconta la grande, ma tormentata storia d’amore tra la stessa Assunta e Manuel, socialista cileno, membro di un dei corpi di guardia di Salvador Allende, che grazie a un caso (ed il caso, come dice il titolo stesso del libro, è uno dei protagonisti di questo racconto) riesce a sfuggire ai massacri di Pinochet.
Dopo essersi nascosto per due mesi, si rifugia all’Ambasciata italiana di Santiago e arriva poi, grazie a un salvacondotto internazionale, alcuni mesi dopo a Roma. Qui viene subito travolto da quell’eccezionale ondata di solidarietà, che in tutta l’Europa (e particolarmente in Ticino!) si era manifestata verso gli esuli cileni: se pensiamo a cosa sta capitando ora con i migranti, ad uno non può che accapponarsi la pelle pensando a come è peggiorata la situazione in mezzo secolo.
Ma molti sono gli esempi che illustrano la differenza tra allora e oggi: ed è forse per questo che il libro mi ha affascinato.
Manuel incontra Assunta, figlia di comunisti e per la quale trascorrere tutte le domeniche a vendere l’Unità nelle strade o le notti a cucinare per gli esuli cileni era qualcosa di assolutamente normale su cui non c’era bisogno di spendere neanche una parola. Tra i due nasce un amore straordinario che attraverso varie peripezie dura per sempre. Il primo inghippo nasce da un accordo tra l’allora Jugoslavia di Tito e il Partito Socialista Cileno in esilio, per cui a molti cileni vengono offerte borse di studio nel paese balcanico.
Manuel e Assunta si stabiliscono quindi a Zagabria. Entrambi scelgono la Facoltà di Economia, ciò che comporta anche un periodo di stage nelle fabbriche autogestite. La storia descrive la vita studentesca di allora e non solo degli esuli cileni, narra il come dovettero imparare il serbocroato, di come furono accolti dagli operai autogestiti (per chi non lo ricordasse più: l’autogestione era la differenza fondamentale tra la Jugoslavia e il resto dei paesi dell’Est europeo), le notti passate a discutere con intellettuali delle varie repubbliche jugoslave eccetera.
Il tutto viene descritto in modo estremamente semplice, anche se con molta poesia. E uno si trova ad avere una struggente malinconia per quella che fu la realtà dell’ex-Jugoslavia e capisce come mai ancora oggi la maggior parte di coloro che provengono da questi paesi ti dicono «Che bello sarebbe tornare ad avere ancora la Jugoslavia».
E invece oscure forze politico- economiche, soprattutto occidentali, l’hanno distrutta, causando 300’000 morti. E qui oltre alla malinconia, ti senti dentro una rabbia enorme.
I due tornano a Roma, dove si scontrano con la straordinaria burocrazia italiana, che non vuol riconoscere i loro titoli di studio. Poi, ma sempre per il caso, la loro vita viene sconvolta da una serie di disgrazie: dalla morte in Cile del fratello Alejandro, che Manuel non riesce ad abbracciare perché non può rientrare sino al tumore cerebrale diagnosticato allo stesso Manuel. Oltre a tutto ciò una gravidanza portata avanti con gioia in una situazione estremamente difficile ed il figlio Carlos Manuel, attorno all’amore del quale sembra poi girare tutto, anche quando il mondo sembra crollare.
Quindi: una storia di amore e di lotta, scritta in modo molto semplice, ma con molta poesia, anche questa semplice, quindi molto vera. Il tutto velato da una gran malinconia, per tutti coloro che si accorgono di quante belle realtà siamo oramai orfani e di quanto ci rimane da fare per tornare a sperare che si possa uscire dal mondo deprimente in cui viviamo ora. E per continuare a sperare che un altro mondo è possibile.
Quaderno 7 / Giugno 2016