Trump incendia il Medio Oriente

di Michele Giorgio

 

L'inaugurazione dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme, tra le vane proteste dei palestinesi, è il simbolo della strategia che porta avanti con forza l’alleanza Usa-Israele-Arabia saudita.

Strategia volta a centrare tre importanti obiettivi, in Medio oriente e non solo: demolire la legalità internazionale; ridimensionare, anche militarmente, l’Iran principale ostacolo per l’alleanza nella regione; negare una volta e per tutte l’aspirazione dei palestinesi di rivendicare, anche solo su una piccola porzione della Palestina storica, uno Stato sovrano.

 

Non è un caso che ciò sia in atto in modo ancora più manifesto che in passato da quando Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti. Alcuni ritengono che l’inquilino della Casa Bianca sia uno “stolto e ignorante” tycoon catapultato alla guida della superpotenza mondiale e controllato dalle lobby più potenti. Questa lettura, pur avendo delle basi solide, è secondaria rispetto all’elemento centrale della presidenza Trump in Medio Oriente: imporre, anche a costo di nuove guerre devastanti, il potere degli Stati uniti e dei suoi alleati più stretti che Barack Obama ha o avrebbe ridimensionato con le sue politiche “esitanti”.

 

L’Amministrazione Trump non è “manovrata”, come si dice, dal governo israeliano. Trump vive in simbiosi con il premier Netanyahu. L’idea di ordine regionale è assolutamente simile. Gli Stati uniti sanno che potranno rinsaldare il loro potere e contenere le ambizioni della Russia (e della Cina in seconda battuta) nella regione mediorientale, solo rafforzando il potere di Israele e dell’altro alleato strategico, l’Arabia saudita di fatto già guidata dall’erede al trono e falco in politica estera Mohammed bin Salman.

 

La demolizione del diritto internazionale e del ruolo delle Nazioni Unite è un obiettivo evidente dell’Amministrazione Trump e voluto e desiderato con forza dall’attuale governo israeliano. Non che l’Onu sia un argine reale allo strapotere degli Usa: negli anni spesso l’ha favorito. Però il Palazzo di Vetro resta custode di quella legalità internazionale che afferma l’uguaglianza degli esseri umani e i diritti di tutti i popoli alla piena autodeterminazione e alla libertà. Principi che Washington e Tel Aviv considerano “obsoleti”, ossia degli ostacoli per le “democrazie” chiamate a combattere “guerre asimmetriche” con popoli “terroristi” contro i quali non sarebbe più possibile confrontarsi rispettando il diritto umanitario in tempo di guerra e i diritti umani e politici.

 

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, fatto da Trump lo scorso 6 dicembre, non è solo l’imposizione di una soluzione “politica” fondata sulla legge del più forte o di una concezione religiosa (di cui è espressione in particolare il cristiano messianico vice presidente Usa, Mike Pence). È anche una picconata alla risoluzione 181 dell’Onu per la partizione della Palestina, che dal 1947 è il caposaldo al quale restano ancorati i Paesi, in particolare quelli europei, che vorrebbero una soluzione di compromesso territoriale tra israeliani e palestinesi, con Gerusalemme come capitale condivisa.

 

Soluzione nettamente contraria a quella che sta attuando sul terreno – con il pieno consenso di Washington – il governo di destra nazionalista-religioso di Benyamin Netanyahu, che vuole Israele in completo e definitivo controllo di tutto il territorio della Palestina storica, lasciando ai palestinesi solo la gestione amministrativa delle loro città principali, aree densamente popolate abbastanza simili a “bantustan”. Che poi queste zone possano un giorno essere chiamate “Stato” poco importa, in ogni caso non godrebbero di sovranità reale e del controllo effettivo del territorio.

 

Contiguo a ciò è la disumanizzazione del “nemico palestinese” che non può essere detentore di diritti perché la sua vita, la sua cultura e la sua religione sarebbero “incompatibili con i valori dell’Occidente”. Un modo di pensare non più infrequente anche in Europa. L’establishment politico e militare israeliano ha descritto – con il pieno appoggio di Nikki Haley, l’ambasciatrice Usa al Palazzo di Vetro – tutti come dei “terroristi manovrati da Hamas”, nonostante fossero disarmati, gli oltre 100 palestinesi, molti dei quali giovanissimi, uccisi nelle scorse settimane lungo le linee con la Striscia di Gaza, un lembo di terra (è di meno di 400 kmq) abitato da due milioni persone sotto embargo israeliano da 11 anni, perché controllato dagli islamisti di Hamas, e ormai invivibile secondo gli standard internazionali.

 

Si deve leggere anche in questo quadro la decisione di far uscire gli Stati uniti dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano del 2015 (Jcpoa) presa all’inizio di maggio dall’Amministrazione Trump, tra gli applausi di Israele e l’Arabia saudita. Barack Obama, sia pure tra limiti e ambiguità, aveva riconosciuto assieme agli altri quattro membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (più la Germania), che l’Iran è una potenza regionale e un Paese che rispettando certe norme e rinunciando alla possibilità di poter costruire l’arma atomica può far parte della comunità internazionale.

 

L’esatto contrario di ciò che pensano l’Amministrazione Trump, Israele e l’Arabia saudita. Un Iran forte è il pilastro di quella alleanza sciita – con Siria, il movimento libanese Hezbollah, i guerriglieri yemeniti Houthi e in misura minore l’Iraq – che sfida gli Usa, gli interessi (anche petroliferi) di Riyadh e il controllo strategico di Israele sul Medio oriente. Un equilibrio di potere con l’Iran è escluso categoricamente da Israele. A nulla vale il monitoraggio dell’Agenzia internazionale per l’Energia Atomica che conferma che Tehran sta rispettando i termini dell’intesa del 2015.

 

A Israele, Usa e Arabia saudita ciò non basta. Vogliono che l’Iran sia ridotto all’impotenza. Il premier Netanyahu denuncia l’intenzione segreta dell’Iran di dotarsi dell’arma atomica allo scopo di distruggere lo Stato ebraico e fa costante riferimento alla retorica bellicosa dei leader religiosi iraniani. Ma a preoccuparlo di più è il potere di deterrenza strategica (non nucleare) che l’Iran già ora può opporre a Israele (che comunque è l’unico Stato mediorientale a possedere, segretamente, l’atomica). L’accordo del 2015 infatti non tiene conto del programma di missili balistici a lungo raggio della Repubblica Islamica. Missili che rappresentano allo stesso tempo una difesa e una capacità di risposta strategica a un eventuale attacco israelo-americano. I missili balistici in gran parte forniti da Siria e Iran in possesso di Hezbollah non sono solo una minaccia diretta a Israele come denuncia Netanyahu. Rappresentano anche una deterrenza posta proprio al confine con lo Stato ebraico. Il premier sa che i missili balistici sviluppati in questi anni dagli iraniani e quelli negli arsenali di Hezbollah verrebbero lanciati contro Israele, l’Arabia saudita e le basi americane nel Golfo, in caso di un attacco alle centrali atomiche di Tehran. Da qui l’insistenza che il Jcpoa sia integrato con il divieto per Tehran di possesso di missili a media e lunga gittata.

 

L’Iran non deve essere in grado di attaccare e nemmeno di difendersi adeguatamente. I raid aerei di Israele in Siria contro presunte posizioni della guardia rivoluzionaria iraniana – non ostacolati dalla Russia alleata di Damasco – sono la manifestazione concreta del “contenimento” della presenza iraniana in quel Paese e funzionali alla partizione della Siria. Washington, Tel Aviv e Riyadh riconoscono che la stabilità del potere del presidente siriano Bashar Assad non è più in discussione e sanno che Mosca non permetterà la caduta del suo alleato. Puntano perciò ad imporre e a consolidare uno scenario in cui Assad sostenuto da Tehran sarà ristretto nelle aree centrali Paese, con un controllo scarso o nullo della frontiera nord, dove preme la Turchia di Erdogan, e una Siria meridionale di fatto sotto il controllo di Israele mediante l’imposizione di una ampia “fascia di sicurezza”, controllata da forze anti-Damasco e profonda decine di chilometri, entro la quale non potranno entrare gli iraniani e i guerriglieri Hezbollah oltre alle truppe governative siriane. Per questo e per garantirsi il non intervento della difesa antiaera russa in Siria, Netanyahu porta avanti trattative serrate con un Vladimir Putin riluttante a dare il via libera di Mosca.

 

Non è superfluo ricordare che Israele si è già annesso unilateralmente le Alture del Golan, un territorio siriano che occupa dal 1967.

 

Due recenti consultazioni elettorali hanno assunto rilievo, una contro e l’altra a favore, per la strategia dell’alleanza Usa/ Israele/Arabia saudita. Le elezioni libanesi che hanno visto il ritorno del Parlamento sotto il controllo del fronte “8 Marzo”, l’alleanza di forze (anche cristiane) guidata da Hezbollah, e quelle irachene in cui è risultato vincitore lo schieramento eterogeneo capeggiato dal religioso Moqtada Sadr. Nel primo caso l’esito del voto consolida la supremazia di Hezbollah, quindi dell’influenza di Tehran, a discapito del premier sunnita uscente (ma probabilmente sarà riconfermato) Saad Hariri che per anni ha rappresentato l’uomo dell’Arabia saudita e dell’Occidente nel Paese dei cedri. Di conseguenza l’arsenale di Hezbollah, forte si dice di 100mila missili a corto e medio raggio, non sarà più messo in discussione come era avvenuto negli anni passati e Israele dovrà necessariamente tenerne conto in caso di una nuova guerra.

 

Nel secondo caso il successo di Muqtada Sadr – che, mentre scriviamo, non appare facile da tradurre nella formazione di un governo stabile – potrebbe limitare l’influenza che l’Iran esercita sull’Iraq. Sadr pur essendo una sciita e un ex oppositore in armi (con l’Esercito del Mahdi) dell’occupazione Usa dell’Iraq, da qualche tempo appare animato da una insolita vena nazionalista e si è espresso contro Tehran, contro Bashar Assad. Ha anche incontrato qualche mese fa il principe saudita Mohammed Bin Salman. Sadr non è il leader ideale che Trump e i suoi alleati vorrebbero per l’Iraq ma può creare crepe in quella “Mezzaluna Sciita” guidata dall’Iran che da anni spaventa i regimi arabi sunniti guidati dall’Arabia saudita e si oppone a Washington e Tel Aviv.

 

 

 

 

 

Quaderno 16 / Giugno 2018