La frustrazione del docente

di Adriano Merlini, docente

 

I docenti ticinesi sono in crisi. Probabilmente il loro non è che uno dei molteplici segnali dello smarrimento che affligge buona parte della società globalizzata planetaria che si manifesta tramite l’enfasi della riuscita del singolo anche a discapito della collettività, l’autorità chiamata a supplire l’autorevolezza, la denigrazione del parere esperto, l’etica fluida, il pensiero breve, …

 

In Ticino è sensazione condivisa tra i professionisti dell’insegnamento che in un’ampia fascia della popolazione abbia preso piede una sorta di visione schizofre nica del docente: da una parte è sempre più spesso dipinto come un mezzo fallito che non ha saputo fare di meglio nella vita e che però gode di tanto immani quanto immeritati privilegi contrattuali e dall’altra le aspettative nei suoi confronti sono elevatissime perché si occupa dei nostri figli, che spesso noi non capiamo più ma sui quali siamo disposti ad investire tutto e ai quali diamo sempre ragione contro tutti e tutto.

 

Che sia un fuco o un supereroe non importa: l’uomo comune sa meglio di lui come dovrebbe svolgere il suo lavoro. E i rappresentanti politici lo rinsaldano in questa sua convinzione, togliendo pian piano alla Scuola la sua funzione di resistenza riflessiva alle mode e agli orientamenti sociali del momento.

 

Da questa angolatura, la crisi non può che terminare al momento in cui i docenti stessi, frutto della società, assimilandosi non riconosceranno più questo loro mandato specifico, oppure con un profondo ri-orientamento sociale.

 

Il problema di fondo appena abbozzato è ovviamente acuito da condizioni quadro che fanno sì che il docente si rende perfettamente conto di non riuscire a fare il proprio lavoro bene come vorrebbe. Pur aumentando l’eterogeneità e le richieste di attenzione per il singolo allievo, le nostre classi sono sempre più affollate e gli oneri di insegnamento, amministrativi e burocratici esplodono.

 

È quindi fondamentale diminuire il numero di allievi per classe in tutti gli ordini e gradi di scuola e diminuire il numero di studenti che ogni docente deve seguire. È ovvio. Purtroppo non tutti sanno che un docente di Scuola media o di Liceo arriva ad insegnare in 15 classi, ciò che può significare, sempre più spesso grazie al processo di “razionalizzazione”, 375 ragazzi…

 

I docenti hanno proposto delle soluzioni: l’ultima loro iniziativa, veicolata dal sindacato VPOD, che proponeva di diminuire il numero massimo di allievi per classe a 20 è stata bocciata nel 2016 in votazione popolare. Il DECS ci prova ora con La Scuola che Verrà: l’esito del progetto, o almeno della sua sperimentazione, è tutt’altro che scontato malgrado goda del sostegno di tutte le associazioni magistrali che ritengono valga la pena verificare l’efficacia di un modello che prevede ben il 40% delle lezioni con gruppi di allievi ad effettivi ridotti.

 

Nel frattempo i dati statistici ci dicono che il 20% degli insegnanti si situa oltre la soglia di vigilanza della depressione professionale, che solo il 30% lavora a tempo pieno, che la professione si sta femminilizzando sempre più, che i nostri salari sono i più bassi della Svizzera e lo scarto va ampliandosi, che le nostre prospettive pensionistiche si sono ridotte del 20% (che rischia di diventare a brevissimo termine 40%) nel giro di 10 anni.

 

Purtroppo la somma di tutti questi fattori, e di molti altri, si traduce sempre più spesso anche per i docenti in rassegnazione e non in mobilitazione, in applicazione di mezzucci individuali di sopravvivenza e non in richieste collettive di cambiamento del sistema. Ciò che non giova alla qualità della scuola pubblica ticinese.

 

 

 

 

 

Quaderno 16 / Giugno 2018