La mano dura di Trump contro Cuba

di Roberto Livi

 

Dal 19 aprile Cuba è entrata in una nuova fase storica. Per la prima volta è stato eletto un presidente civile, che non porta il cognome Castro, né fa parte di quella leadership che ha fatto la Rivoluzione, ma che servirà di raccordo tra questa e le nuove generazioni.

 

Il nuovo presidente Miguel Díaz-Canel, inoltre, non è il primo segretario del Partito comunista – carica che Raúl Castro manterrà fino al 2021 – iniziando così, per la prima volta dal 1976, anche una separazioni dei poteri (istituzionali e politici), che sarà probabilmente in qualche modo sancita nella prossima riforma costuzionale.

 

Questo avvicendamento è un passaggio evidentemente storico. Ma viene effettuato – lo hanno ribadito sia il nuovo che il vecchio capo di Stato – mantenendo la continuità del processo politico inaugurato dallo stesso Raúl Castro nel Congresso del Pcc del 2011: una serie di «rinnovamenti» (di fatto riforme) del «modello economico e sociale» volti a costruire un «socialismo prospero e sostenibile». In quel Congresso – nel quale era stato eletto primo segretario del Pcc succedendo al fratello maggiore Fidel – l’ex presidente aveva deciso di introdurre la novità di un massimo di due mandati di cinque anni per le alte cariche politiche, governative e istituzionali.

 

È un fatto di grande rilievo che abbia deciso di sottoporsi per primo a tale regola: è la stessa Rivoluzione, che Raúl rappresenta, a mettere fine all’eccezionalità della prolungata gestione del potere da parte dei Castro. Con l’elezione di Díaz-Canel il socialismo cubano dimostra una qualità diversa dalle soluzioni “dinastiche” da Corea del Nord.

 

Il fatto che in un paese in cui le Forze armate hanno un enorme potere, anche economico, e i due precedenti presidenti indossavano la divisa, non sia stato scelto un militare inficia inoltre le reiterate accuse della Casa Bianca (qualunque sia stato il presidente, con eccezione di Obama) che Cuba sia retta «da una dittatura familiar-militare».

 

L’elezione di Miguel Díaz-Canel «non è stato un fatto casuale», ha affermato Raúl nel suo discorso di commiato dalla presidenza, bensì il frutto di molti anni di lavoro all’interno del partito e dello Stato. Nato nella provincia di Villa Clara l’anno dopo la vittoria della Rivoluzione, nel 1960, laureatosi ingegnere elettronico nel 1982, Díaz-Canel è giunto alla vertice partendo da responsabilità a livello locale. Ha mosso i primi passi come dirigente della gioventù comunista; negli ultimi anni Ottanta del secolo scorso è stato in missione nel Nicaragua sandinista; nel 1991, a trent’anni, è entrato nel Comitato centrale del Pcc e nel ’93 è diventato segretario del partito a Villa Clara, quindi nel 2003 della provincia di Holguin. Per decisione dello stesso Raúl Castro è poi stato trasferito all’Avana e promosso a membro dell’Ufficio politico del Pcc e, nel 2009, a ministro dell’educazione superiore. La sua scalata è continuata prima come vicepresidente del Consiglio di Stato, e nel 2013 come primo vicepresidente.

 

 

 

Dovrà conquistare la fiducia dei cubani

 

Su Díaz-Canel c’è già una piccola mitologia: il giovane dirigente dai capelli lunghi che va in bicicletta quando è segretario a Villa Clara negli anni Novanta, quelli delle grandi privazioni del “periodo especial”; che ama i Beatles (di fatto messi al bando per più di trent’anni); che autorizza e difende a Santa Clara un centro culturale riferimento della comunità LGBT (in sintonia con Mariela, la figlia minore di Raúl, grande promotrice dei diritti LGBT); che – nelle elezioni dello scorso marzo – si mette in coda con la moglie per votare, come un qualsiasi cittadino.

 

Ma per i cubani Diaz-Canel è sostanzialmente un personaggio poco conosciuto, che solo in tempi abbastanza recenti è stato messo in evidenza per prepararne l’ascesa alla presidenza. Un dirigente dunque che non ha il carisma di chi la rivoluzione l’ha fatta e che suscita, oltre a qualche speranza, molti interrogativi. «Il nuovo presidente dovrà crearsi un nuovo consenso politico. Non ne eredita uno» sostiene Rafael Hernández, direttore della rivista Temas, riferendosi al fatto che, pur apparendo da anni in tv, il nuovo capo di Stato finora ha brillato di luce riflessa.

 

Nessuno esclude che Diaz-Canel possa riservare delle sorprese, mostrare una personalità, conquistare consensi: per il momento, soprattutto con il diffuso scetticismo e l’apatia politica che i problemi della quotidianità – crisi economica, bassi salari, scarsezza di generi di prima necessità- non fanno che aumentare, è difficile che i cubani possano molto identificarsi nel nuovo presidente.

 

Non solo, dovrà iniziare a lavorare in squadra con altri personaggi emergenti della sua generazione: la segretaria del partito dell’Avana, Mercedes López Acea; il ministro degli Esteri, Bruno Rodriguez, che avrà il compito di affrontare la politica sempre più aggressiva del presidente statunitense Donald Trump; lo “zar” dell’economia Marino Murillo che dovrà affrontare i temi più attesi dalla popolazione: una crescita economica che elevi i salari, l’eliminazione della doppia moneta, il problema delle abitazioni, la conferma del ruolo strategico dei piccoli imprenditori e degli investimenti privati.

 

Secondo l’analista russo Nicolai Leonov – ex vicedirettore del Kgb, amico personale di Raúl del quale ha scritto una biografia – l’ex presidente avrebbe dato «carta bianca» a Díaz-Canel. Ma il fatto che la formazione del nuovo governo sia stata rimandata a luglio, alla prossima riunione ordinaria dell’Assemblea nazionale del Poder popular (Parlamento unicamerale), dimostra che le divisioni del potere non sono ancora state decise. Per tutte queste ragioni, il nuovo presidente avrà bisogno dell’appoggio della «vecchia guardia».

 

 

 

La vecchia guardia si attesta nel partito

 

Raúl Castro resta il garante del la nuova fase iniziata con l’elezione di Díaz-Canel. È infatti cominciato un processo di rinnovamento generazionale: non solo Raúl, ma anche Ramón Machado Ventura, l’ex numero due del partito-Stato e indicato come il capofila degli “ortodossi”, si sono ritirati dal Consiglio di Stato. Entrambi si sono attestati nel “nucleo duro” del potere – come garantisce l’articolo 5 della Costituzione – ovvero al vertice del Partito comunista, di cui restano rispettimanente primo e secondo segretario. Anche le Forze armate hanno una rappresentazione contenuta nel Consiglio di Stato, per non far ombra al primo civile capo di Stato e di governo. Come garanti, ma anche cinghia di trasmissione col partito e i militari, restano nel Consiglio di Stato sia il ministro delle Forze armate, generale Leopoldo Cintra Frías (76 anni) sia il comandante (della Rivoluzione) Ramiro Valdés.

 

 

 

Che paese eredita il nuovo presidente?

 

Miguel Díaz-Canel eredita un paese con un alto livello culturale e con accesso gratuito a educazione, cure mediche, cultura e sport; con indicatori sociali – mortalità infantile e materna, alta speranza di vita (78.5 anni), educazione obbligatoria fino a 16 anni, buon e diffuso insegnamento universitario – da primo mondo.

 

Però l’economia e il benessere dei suoi cittadini sono colpiti da problemi strutturali come la bassa crescita economica, il deficit fiscale, il debito esterno, la bassa produttività del lavoro, il basso potere di acquisto dei salari e il deficit abitazionale. Anche la demografia non aiuta l’economia con tendenza a un invecchiamento (20.1% di maggiori di 60 anni contro il 16.1 di giovani dai zero ai 14 anni).

 

Proprio per affrontare questi problemi sotto la presidenza di Raúl sono stati varati piani – la “modernizzazione del modello economico e sociale” e il piano di riforme fino al 2030 – che hanno lo scopo di affrontare e ridurre la “forbice” con il mondo sviluppato.

 

Solo che gran parte delle “modernizzazioni” sono ancora da attuarsi. E dunque le riforme sono in mezzo al guado. Le prime sfide del nuovo presidente consistono nel dinamizzare queste riforme affrontando i nodi chiave: eliminazione della doppia moneta, progredire nelle decentralizzazione e nello sviluppo delle piccole e medie imprese private, specie delle cooperative non agropecuarie, favorire gli investimenti esteri, migliorare le infrastrutture. Insomma, una serie di misure per far crescere il tenore di vita dei suoi concittadini. I quali questo chiedono. E in tempi rapidi.

 

Si tratta di favorire anche una sorta di riconciliazione di Cuba col suo passato, il suo presente e il suo futuro: permettendo, e anzi favorendo, la possibilità di investimenti sia ai cubani che vivono nell’isola che a quelli dell’emigrazione. Ormai, infatti la gran parte degli emigrati – anche in Florida – è favorevole a trattare col governo dell’Avana.

 

 

 

L’aggressività di Trump

 

Le relazioni tra Cuba e Stati uniti però vanno verso un peggioramento. È la sostanza di un articolo che l’esperto di politica internazionale Ted Piccone ha scritto per il Centro (di ricerche sociali) Brookings dopo il Vertice delle Americhe, tenutosi a Lima a metà aprile. In quell’occasione, il vero leader della delegazione statunitense è stato non il vicepresidente Mike Pence, ma il senatore repubblicano della Florida Marco Rubio. Il quale senza mezzi termini ha chiamato a raccolta le destre latinoamericane – in crecita dopo le vittorie elettorali di Mauricio Macri in Argentina (2015), di Sebastian Piñera in Cile (marzo 2018), di Mario Abdo Benitez (Paraguay aprile 2018) e soprattutto dopo il golpe anti Dilma Roussef in Brasile e l’arresto di “Lula” Da Silva – perchè applichino dure sanzioni contro il Venezuela bolivariano.

 

Per quanto riguarda Cuba, Rubio ha chiesto al presidente Trump di applicare ulteriori sanzioni contro le Forze armate dell’isola. Sia il presidente Usa, sia la sua squadra di falchi – Mike Pompeo al Dipartimento di Stato e John Bolton alla sicurezza – sono favorevoli alla mano dura contro Cuba. Questa rinnovata e pericolosa aggressività dell’Amministrazione Trump si somma alla crisi che attanaglia il Venezuela – principale alleato e partner di Cuba – e che colpisce altri paesi del “nocciolo duro” bolivariano – nuovo e vecchio presidente l’un contro l’altro armati in Ecuador, minaccia di una rivolta “colorata” contro il governo di Daniel Ortega in Nicaragua. E che rende ancor più difficile il compito di Díaz-Canel.

 

 

 

 

 

Quaderno 16 / Giugno 2018