Il castello di carta della Fashion Valley Ticino

di Nestor Buratti

 

Nome del progetto: Prometheus. Obiettivo: “ridefinire l’ingegneria” del montaggio finanziario attorno alla società Luxury Good International (LGI), filiale di Cadempino di Kering, la multinazionale francese che controlla marchi come Gucci o Bottega Veneta.

 

Questi dettagli scaturiscono da un documento riservato, pubblicato lo scorso 8 maggio dal sito d’inchiesta francese Mediapart. Nell’articolo si racconta di come il gruppo controllato dalla famiglia Pinault abbia deciso di cambiare i pilastri che reggono la propria ingegneria fiscale. Pilastri che, sostanzialmente, reggevano su un unico concetto: gli utili per decine di milioni di franchi annui generati dai marchi del lusso venivano trasferiti a Cadempino, dove, sempre secondo il sito transalpino, LGI beneficia di una tassazione favorevole.

 

Si parla di un tasso d’imposizione totale attorno all’8%, negoziato con le autorità fiscali ticinesi. Il gruppo prevede, entro fine 2018, di modificare in profondità “i principi e i metodi di calcolo dei prezzi di vendita, di transazioni infra-gruppo e di flussi finanziari simili”.

 

La notizia avrebbe dovuto suscitare ampie reazioni in Ticino. Eppure in pochi se la sono filata. Il CdT ha interrogato il servizio stampa di Kering il quale ha affermato che il gruppo non lascerà Cadempino. Ma il semplice fatto che la multinazionale intenda rivedere la maniera con cui paga le tasse fa traballare un altro pilastro: quello sul quale si è retto l’edificio fiscale ticinese negli ultimi venti anni. Kering è infatti diventato il più grande contribuente del Cantone grazie al fatto che, pur pagando in proporzione poche tasse, ha trasferito, artificialmente, dalle nostre parti gran parte degli utili generati a livello mondiale.

 

Dal 2006 al 2016 gli utili netti registrati dalla LGI di Cadempino hanno raggiunto, complessivamente, i 7 miliardi di franchi. Con i suoi circa 600 impiegati (in parte precari e con paghe poco dignitose) la LGI realizza all’incirca il 70% degli utili di una multinazionale che di lavoratrici e lavoratori nel mondo ne impiega quasi 40’000.

 

Delle due l’una: o i lavoratori ticinesi, attivi nella logistica e nei servizi amministrativi, sono inumanamente produttivi oppure dietro a questa cifra vi sono dei trucchetti contabili. Optiamo per la seconda possibilità.

 

Il modello su cui si basa il gruppo francese è semplice: la LGI acquista i prodotti ideati e lavorati in Italia e Francia per poi, dopo averli fatti transitare dai magazzini sparsi nel territorio ticinesi, rivenderli alle boutique del mondo intero. Giocando sui prezzi di acquisto e di vendita ecco che gli utili atterrano magicamente in Ticino.

 

Questo modello, semplice quanto efficace, lo si deve proprio alla Gucci. Prima ancora di essere acquistata da Kering, il marchio si era insediato in Ticino. Era la seconda metà degli anni 90, quelli di Marina Masoni alla testa del Dipartimento finanze e economia. Oggi presidente di TicinoModa, la ministra liberale ha avuto un ruolo preponderante nel farsi promotrice di questo modello. Non è un caso, probabilmente, se la stessa Gucci e le altre società della moda arrivate in Ticino abbiano beneficiato dei consigli di specialisti fiscali vicini alla stessa Masoni. Inoltre, un uomo di famiglia, Paolo Brenni (il cognato di Marina Masoni) entra subito – e ci resta fino a oggi – a far parte del Cda della Lgi.

 

Come dire che anche gli interessi personali hanno avuto la loro importanza in quella che a tutti noi è stata venduta come la storiella della Fashion Valley Ticino. Una narrazione entusiasta portata avanti dall’attuale ministro Vitta che, prima di diventare tale, da sindaco di Sant’Antonino, elogiava i benefici che avrebbe portato al suo Comune, l’insediamento del più grande capanno del Cantone. Il risultato è che, dall’arrivo della “Gucci”, a Sant’Antonino è raddoppiata la spesa per l’assistenza.

 

Un simbolo di quanto il comparto moda così come inteso a Bellinzona sia un modello malato. Vitta e i suoi hanno cantato fino all’ultimo le lodi di un settore che non è di fatto sostenibile. A livello internazionale stanno infatti cambiando le regole. Gli Stati dell’Ocse, tra cui la Svizzera, hanno siglato l’accordo Beps inteso a contrastare il trasferimento e la riduzione di utili a livello globale: «L’opzione fiscale delle multinazionali, di per sé legale ma qualificata come aggressiva, deve essere limitata» scrive l’amministrazione federale.

 

Il Cantone ha utilizzato l’arma del dumping fiscale per attirare le imprese della moda. Non ha però saputo prevenire le prevedibili nuove regolamentazioni internazionali. E ora che il giochetto è finito e che le autorità fiscali estere cominciano a interessarsi alla maniera con la quale i profitti arrivino in Ticino, il Cantone si trova con le spalle al muro. Anche se Kering non chiuderà i suoi depositi ticinesi, le entrate fiscali da cui il Cantone è ormai dipendente diminuiranno di parecchio.

 

Il modello della Fashion Valley è insomma al capolinea. Questo indipendentemente dai nuovi sgravi accettati di recente da una ristrettissima minoranza di ticinesi. Dopo una campagna basata sulla menzogna e il ricatto.

 

 

 

 

 

Quaderno 16 / Giugno 2018