di Franco Cavalli
Rita Di Leo, professore emerito di relazioni internazionale presso l’Università La Sapienza di Roma, si è da sempre interessata alla contrapposizione tra il socialismo sovietico e il capitalismo americano, pubblicando una serie di libri estremamente interessanti.
In particolare si è sempre concentrata su studi che potessero far capire perché l’esperienza sovietica alla fine è fallita: di questo ha parlato anche qualche mese fa durante la serie di conferenze organizzate alla Biblioteca cantonale di Bellinzona sul tema dell’Ottobre Rosso.
È questa la domanda fondamentale per tutti coloro che oggi vogliono ancora richiamarsi al socialismo e che molti, come ha sempre criticato Rossana Rossanda, cercano di evitare. Questo atteggiamento del voler ad ogni modo “schivare l’oliva” è sicuramente una delle ragioni per cui poi la sinistra occidentale per diversi decenni si è trovata priva di armi intellettuali e culturali nell’affrontare l’ondata neoliberista.
Questo libricino di neanche 150 pagine di Rita Di Leo è molto denso di riflessioni, un vero fuoco di fila di intuizioni e non per nulla Luciana Castellina nella sua recensione (Manifesto, 15 febbraio 2018) l’ha definito “spiazzante”, aggiungendo poi a mo’ di avvertenza “non crediate dunque di poterlo leggere in autobus”.
L’autrice, sottolineando come al momento della caduta di Berlino il partito comunista sovietico contasse ben 19 milioni di membri, si chiede ancora una volta soprattutto perché ciò ha potuto avvenire e soprattutto se ciò sarebbe stato evitato, se Lenin fosse vissuto più a lungo ed avesse dato un indirizzo diverso da quello poi impresso da Stalin.
Secondo la Di Leo, Lenin avrebbe capito negli ultimi anni, anche se è difficile dimostrarlo fino in fondo, che prima di passare al socialismo sarebbe stata necessaria una fase di “uso bolscevico del capitalismo”, un po’ come stanno facendo (ma questa è una mia conclusione) ora i cinesi. Stalin invece puntò, oggi diremmo quasi in modo populistico, su quello che lei definisce il “golem” operaio, cercando cioè di operaizzare tutta la società, scommettendo sul fatto che l’operaio, in quanto tale, sarebbe stato capace di far funzionare al meglio politica ed economia, mettendo quindi da parte tutti coloro “che avevano le mani lisce e mille dubbi nella testa”.
Chi è stato nei paesi dell’est non ha dubbi, per esempio che anche l’architettura riflettesse un certo gusto operaio, ciò che si ritrova anche nella produzione artistica del periodo stalinista. Nelle istituzioni amministrative poi i funzionari di partito di estrazione popolare controllavano i dirigenti di estrazione borghese. Anche a livello salariale, il tecnico, l’intellettuale, il ricercatore venivano sfavoriti rispetto agli operai e secondo la Di Leo sta qui la ragione principale che ha condotto a una società sovietica sempre più ingessata e dove alla fine una delle cause fondamentali dell’implosione è stata la carenza di innovazione tecnologica rispettivamente l’incapacità di tradurre in produzioni moderne e innovative le scoperte della ricerca fondamentale, che pure in Unione Sovietica è sempre stata di primo ordine.
Lo status dell’intellettuale era quindi ideologicamente, ma anche socio-economicamente subalterno a quello dell’operaio “golem”, una situazione che sicuramente né Gramsci né Lenin avrebbero mai ritenuto come chiave di volta su cui costruire la nuova società.
Ma cosa c’entra allora Zuckerberg? Formalmente lo si potrebbe considerare anche un rivoluzionario, ma in fondo rappresenta quell’involuzione che secondo l’autrice sta facendo retrocedere l’umanità, che con Marx e poi con Lenin aveva imboccato la strada di un tentativo di far maturare l’essere umano come animale politico, mentre attualmente assistiamo ad un ritorno piuttosto ad una situazione da animale asociale.
Il prevalere dell’economia sulla politica ha infatti annullato, dice Rita Di Leo, l’essenza collettiva del vivere umano e questa disumanizzazione è evidenziata dal nostro incistarci nel proprio buco socio- culturale, nell’oceano degli algoritmi e dei social media. E oramai i maestri intellettuali, quelli che lei chiamava una volta “i re-filosofi” sono scomparsi proprio perché in Facebook ognuno ha l’impressione di diventarlo. Qui Rita Di Leo diventa lapidaria quando afferma che “nella quasi totalità dei commenti emerge una sostanza umana da età della pietra”. E siccome la tecnologia e la scienza non sono mai neutrali, secondo l’autrice siamo di fronte ad una vittoria, di tipo quasi apocalittico, ottenuta anche grazie agli algoritmi del capitalismo.
Se tutta la discussione sul perché del fallimento dell’esperimento sovietico mi trova consenziente, questa conclusione unilaterale, che per certi versi richiama, anche se dalla parte opposta, la famosa affermazione della “storia ormai finita” di Fukuyama, mi sembra poco dialettica. Ma probabilmente dipenderà anche da noi se una rinascita potrà ancora essere possibile e, se sì, quando.