Salario minimo, una questione di dignità e di prospettive

di Maurizio Montesi

 

Il governo ticinese, privo di coraggio e genuflesso sugli interessi padronali, ha perso un’occasione importante per ristabilire le condizioni minime di retribuzione salariale nel disastrato mondo del lavoro cantonale.

È riuscito a proporre una cifra, 18.75 e i 19.25 lordi l’ora, inferiore alla soglia che dà diritto alla rendita complementare Avs/Ai. Una soglia “benedetta” giuridicamente lo scorso anno dal Tribunale federale chiamato ad esprimersi sul salario minimo neocastellano. Se a Neuchâtel quella soglia corrispondeva a 20 franchi, in Ticino ammonterebbe a 21 franchi. Con questa cifra, 21 franchi l’ora, l’impatto sarebbe importante sul tessuto cantonale sarebbe importantissimo.

 

Stando a un’elaborazione realizzata dall’Ufficio statistico cantonale pubblicata dal quindicinale area lo scorso settembre, oltre 20mila lavoratori del cantone vedrebbero la loro busta paga aumentare, anche notevolmente. Di questi, 12mila sono frontalieri e i restanti 8mila sono residenti, di cui la metà con passaporto rossocrociato.

 

Certo, il salario da 21 franchi l’ora è ancora insufficiente per sopravvivere dignitosamente nel Canton Ticino. Se politicamente si potrebbe chiedere di più, va sottolineato che la questione giuridica è ineludibile su questo tema. In uno stato di diritto nazionale impostato sugli interessi padronali, l’autonomia della politica cantonale sul salario minimo è limitata dai confini giuridici.

 

Per farla breve, i cantoni possono legiferare sul salario minimo solo con misure di politica sociale, perché “il diritto della libertà economica” è superiore. E il Tribunale federale ha sancito che la soglia delle complementari avs/ai utilizzato dai neocastellani è il limite massimo della politica sociale oltre cui i cantoni non possono andare. Sarebbe bello rivendicare un salario minimo da 4’500 o 5’000 franchi, ma rimarrebbe un sogno, semplicemente perché è illegale, persino incostituzionale, nello stato di diritto capitalista elvetico.

 

Ecco perché i 21 franchi di salario minimo sono la soglia massima che si può e si deve, sostenere politicamente per i movimenti che difendono gli interessi dei salariati.

 

Ora l’indecente proposta dalla premiata ditta Vitta & Co, (il governo ticinese, ndr), sarà discussa in Gran Consiglio. C’è poco da farsi illusioni che dal dibattito parlamentare si arrivi ai 21 franchi. Le forze politiche filo padronali ben presenti in Gran Consiglio (ossia i liberali, ppdini, leghisti e forse anche qualche complice piessino già distintosi con la riforma fiscale), resteranno inchiodati sui 18-19 franchi di Vitta o al massimo ritoccheranno verso l’alto di qualche centesimo.

 

Solo l’unione delle forze politiche di sinistra potrà opporsi all’indecente proposta, conducendo la battaglia per arrivare al minimo di 21 franchi. Nei fatti, si tratterà di riproporre lo stesso fronte unitario della campagna contro gli sgravi fiscali ai ricchi. Si spera che in questa occasione vi sia meno ambiguità tra le file del Partito socialista, in particolare della maggioranza dei suoi granconsiglieri. Se si dovesse riproporre il brutto spettacolo dato nella votazione sugli sgravi, si dovrà tirarne le definitive conseguenze.

 

Ma non è il solo importo del salario minimo a definire il campo di battaglia. Nella proposta della premiata ditta Vitta & Co, si nasconde un’altra insidia pericolosa: l’esclusione dell’obbligo di rispettare i salari minimi dove esistono dei ccl. La subdola definizione del messaggio governativo di “rafforzare l’Ufficio di conciliazione affinché faciliti la sottoscrizione di ccl”, ha l’unico scopo di legalizzare stipendi ben al di sotto dei 3’330 franchi proposti da Vitta.

 

In Ticino non sono pochi i contratti collettivi siglati dalla pseudo anima sociale ppd, ossia Ocst, ben inferiori a quei 3’330 franchi che sarebbero esclusi dall’obbligo di rispettare il salario minimo dei 18-19 franchi nati dal cilindro del maghetto di Sant’Antonino. E siccome i paladini del partenariato sociale (inteso a favore del padronato) sono la netta maggioranza dei granconsiglieri, la subdola proposta di legalizzare i ccl troverà ampi consensi a destra e a manca.

 

Per chi ha a cuore gli interessi della popolazione, delle sue future generazioni, non resta che prepararsi a una nuova battaglia di civiltà. Perché è indegno per un paese civile negare a una parte rilevante della popolazione di poter vivere dignitosamente del proprio lavoro.

 

Perché è l’occasione buona per liberarci dell’economia a rimorchio, sbarazzandosi di tutta quelle imprese parassitarie focalizzata sul basso costo del personale, a cui poi deve provvedere la collettività.

 

Permetteteci di concludere riprendendo le parole dell’economista e ricercatore Christian Marazzi, intervistato da area sull’impatto di un vero salario minimo in Ticino. Parole che esprimono in una sintesi perfetta, a nostro modo di vedere, la necessità di condurre questa doverosa battaglia.

 

“Finché ci sarà il vantaggio competitivo di accedere a un bacino di forza lavoro per dei salari miserevoli, non si creeranno mai le condizioni quadro affinché l’insieme dell’economia ticinese possa fare un balzo avanti all’altezza delle tendenze dell’economia globale.

È l’occasione per domandarci qual è l’economia che vogliamo, su quali settori vogliamo concentrare le nostre forze, la nostra progettualità. Il futuro delle economie occidentali sono nelle attività incentrate sulle relazioni uomo-uomo. Lo sono per diverse ragioni, demografiche e tecnologiche essenzialmente ma non solo.

La sanità, la ricerca sono settori dove già oggi il Ticino può vantare delle eccellenze. Penso allo Iosi, alla Supsi nei campi della ricerca, delle tecnologie avanzate, nelle intelligenze artificiali, dove siamo tra i migliori al mondo. Perché ci ostiniamo a far crescere un’economia stracciona dove si arricchiscono due o tre persone per impoverirne cento?”

 

 

 

 

 

Quaderno 16 / Giugno 2018