di Michele Giorgio
La Siria non è del tutto scomparsa dalle cronache ma è sempre più raro oggi ascoltare o leggere approfondimenti sulla situazione siriana. I media internazionali, come spesso accade, pongono la loro attenzione solo su massacri e bagni di sangue.
Cessati questi, anche solo in parte, dimenticano i conflitti e le loro cause.
Eppure il quadro siriano – militare, politico e diplomatico – resta fluido, la guerra non è finita anche se i combattimenti sono ora limitati e alcune migliaia di profughi rientrano nel Paese.
Le vittorie conseguite nell’ultimo anno dall’esercito governativo – in particolare quelle recenti a Est di Damasco e nel sud della Siria – ottenute grazie anche all’aiuto dell’aviazione russa e dei combattenti sciiti libanesi (di Hezbollah), iraniani, iracheni (pare anche afghani), hanno garantito al presidente Bashar Assad la ripresa di buona parte (59%) del territorio siriano e l’iniziativa sul terreno a danno delle innumerevoli formazioni islamiste radicali, jihadiste e qaediste che hanno provato a rovesciarlo con l’aiuto di paesi occidentali e arabi sunniti. Nelle mani di quelli che con troppa generosità sono descritti in Occidente come dei “ribelli”, restano la provincia nordoccidentale di Idlib (dove dominano i qaedisti di Hay’at Tahrir as Sham) e piccole porzioni della Siria orientale e meridionale in cui agiscono cellule dello Stato Islamico.
A nord il 27% circa del paese, ossia il Rojava e poco più, è sotto il controllo delle formazioni Ypg curde e Sdf curdo-arabe. Ma Damasco e i curdi hanno avvicinato le loro posizioni negli ultimi mesi, in conseguenza dell’appoggio di fatto che gli americani hanno dato all’invasione turca del nord della Siria e dell’occupazione della città di Afrin, tradendo le promesse che avevano dato al popolo curdo che per gran parte della guerra ha combattuto a caro prezzo contro lo Stato Islamico.
L’occupazione militare turca unita ai disegni di Israele e Stati Uniti, oltre che di varie petromonarchie sunnite pesano sul futuro della Siria. Ankara e varie capitali occidentali si sono schierate in queste ultime settimane contro la riconquista da parte dell’esercito siriano anche di Idlib, inserita nella lista delle zone di “de-escalation” concordata da Russia, Iran e Turchia. Questa provincia è divenuta una sorta di “riserva” per qaedisti, jihadisti e altre formazioni cacciate via dalle regioni riconquistate dal governo centrale.
A metà agosto a Marak, uno dei 12 “avamposti di osservazione” turchi in Siria, i rappresentanti di Ankara hanno rassicurato una delegazione di notabili provenienti da vari centri abitati che non ci sarà un’operazione militare governativa a Idlib. Contro l’offensiva sono anche i principali mezzi d’informazione statunitensi ed europei che riflettono le posizioni dei loro governi. La motivazione ufficiale è il rispetto degli accordi per le aree di “de-escalation” e la protezione dei civili. Quella dietro le quinte è garantire gli interessi turchi e tenere una importante regione fuori dal controllo governativo. Da Idlib si può tenere sotto tiro Latakiya e altre città della costa mediterranea siriana (dove è forte il sostegno a Bashar Assad) oltre alle basi aree e navali russi in quella zona. Di recente si sono intensificate le incursioni di droni verso le postazioni russe, quasi certamente lanciati da Idlib.
La Siria è terreno anche per gli interessi di Israele e degli Stati uniti che pure sostengono di volersi di ritirare dal paese. Il 19 agosto è sbarcato in Israele uno storico guerrafondaio, John Bolton, attuale consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e nemico giurato dell’Iran, per coordinare con il governo Netanyahu le politiche per contrastare la presenza iraniana in Siria contro la quale Israele minaccia una guerra su vasta scala. Secondo il sito Debkafile, con legami con i servizi segreti israeliani, gli strateghi di Washington e Tel Aviv sono convinti che il prossimo scontro con l’Iran consisterà principalmente in attacchi aerei. E’ da notare che lo scorso giugno la visita del Segretario di stato Mike Pompeo in Israele fu immediatamente seguita da una serie di attacchi aerei israeliani contro presunti obiettivi iraniani in Siria, tra cui in particolare il bombardamento del 18 giugno a Deir ezZour.
Da Tel Aviv Bolton è poi volato a Ginevra per incontrare il suo omologo russo Nikolay Patrushev per continuare i colloqui su Iran e Siria avuti da Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin al summit di Helsinki il 16 luglio. E’ quasi superfluo rimarcare che l’aiuto di Tehran alla Siria e la presenza di consiglieri militari iraniani e di combattenti di Hezbollah, sia pure a molti chilometri di distanza delle linee israeliane sulle Alture del Golan (siriane e occupate dallo Stato ebraico 51 anni fa), potrebbero fornire un pretesto per quella guerra all’Iran che Israele minaccia (da anni) e di cui gli Stati uniti stanno costruendo le fondamenta dopo essersi ritirati dall’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano e aver imposto nuove sanzioni economiche.
E non è insignificante il fatto che l’Amministrazione Trump si sia pronunciata nelle ultime settimane contro l’avvio della ricostruzione in Siria, proprio per sottolineare che la guerra va avanti.
Un elemento che gioca contro le strategie di Turchia, Israele e Usa è senza dubbio la possibilità che curdi e Damasco possano trovare un compromesso che garantisca allo stesso tempo il rispetto dell’aspirazione del popolo curdo ad un’ampia autodeterminazione e l’integrità territoriale del paese.
Per l’esecutivo siriano è essenziale raggiungere un’intesa sul futuro del paese con i curdi che per anni hanno ricevuto aiuti militari, fondi e promesse dagli Stati uniti e che ora prendono atto dei veri interessi che muovono Washington in Siria. Ad agosto Ilham Ahmed del Consiglio democratico siriano (Cds) ha indicato che, se i colloqui tra le due parti andranno per il verso giusto, le forze a guida curda Sdf potrebbero unirsi a quelle di Damasco. Il dialogo in questa fase è incentrato sulla proposta di Assad di includere il Rojava curdo nelle elezioni amministrative locali previste il mese prossimo. Il Cds insiste per preservare il suo autogoverno. Damasco ripete che qualsiasi intesa dovrà prevedere la fine di qualsiasi presenza americana in Siria, anche nel Rojava.
Se da questi colloqui vedrà la luce un accordo di ampio respiro, storico, tra un popolo che chiede almeno una forte autonomia e un esecutivo che fa del nazionalismo un suo valore inviolabile, è presto per dirlo. Diversi fattori interni e soprattutto esterni – come l’opposizione netta della Turchia all’autodeterminazione curda ovunque essa possa realizzarsi - giocano a suo favore, molti altri contro.
Nel frattempo va avanti il processo di costruzione della rivoluzione, anche culturale, dei curdi e del processo noto come “confederalismo democratico”. “Da noi ideologia, modo di vivere e lotta militare stanno insieme, sono la stessa cosa, un tutt’uno – spiega una autorevole voce curda, Heval Azad - Non è che andiamo in giro con il kalashnikov in una mano e con un libro nell’altra ma il nostro modo di vivere si fonda sull’unità del pensiero rivoluzionario e della pratica reale”.
Una rivoluzione a doppio livello: il piano individuale, del singolo, che intende la politica come principale attività della vita quotidiana; e il piano collettivo, il cammino comune verso un obiettivo riconosciuto che ha alla base la formazione dell’uomo e della donna nuovi teorizzata dello storico leader del Pkk curdo Abdallah Ocalan (prigioniero in Turchia). “Uno dei meriti secondo me più impressionanti del movimento curdo è che proprio in questo tempo ha compreso la dialettica dei cambiamenti personali, collettivi e della società nel suo complesso e li ha messi in pratica – scrive in “Un’utopia concreta.
Le montagne del Kurdistan e la rivoluzione in Rojava: un diario di viaggio” Peter Schaber, nel 2017 membro delle Ypg – Una parte di questa lotta avviene dentro noi stessi. I legami con il sistema capitalista, il patriarcato e lo Stato saranno superati quando le cattive caratteristiche che abbiamo ereditato verranno dismesse. Il secondo livello tratta del modo di vivere nel proprio collettivo, con compagne e compagni, il proprio ambiente, la popolazione. Il terzo livello mira alla rivoluzione della società nel suo complesso, in ultima istanza a livello mondiale”. Idee per le riflessioni anche della sinistra occidentale.
Quaderno 17 / Settembre 2018