Cinema: l’onda “black” contro il trumpismo

di Luca Celada

 

Nell’autunno caldo che prelude ai mid term di questo novembre – il primo esame elettorale del regime Trump è in parte anche banco di prova per i nazional populismi sovranisti ascendenti in Europa - il movimento afro americano si trova nuovamente sulla prima linea di una cruciale evoluzione sociale in America.

Negli anni sessanta la lotta per i diritti civili diede impulso ad un fermento politico e culturale fondamentale per il movimento progressista.

 

Oggi un nuovo movimento esprime l’opposizione forse più netta ad un regime che sta rivangando i fantasmi di una civiltà predicata, come ha scritto Ta-Nehisi Coates, sullo scempio effettivo e metaforico del corpo nero. All’opposizione di politici veterani della vecchia guardia come John Lewis e Maxine Waters fa eco una schiera di esponenti parlamentari emergenti: Keith Ellison, Corey Booker, Kamala Harris. Intellettuali come Cornel West e personalità di musica e spettacolo sono in prima linea nell’articolare la critica all’antico razzismo alla radice dell’attuale nazional populismo. Non è un caso che alcune delle polemiche più feroci di Donald Trump siano state all’indirizzo di politici, artisti e soprattutto atleti afro americani che si sono espressi contro lo stillicidio di omicidi da parte della polizia.

 

L’ondata di odio, fomentata dalla retorica di regime, tracima dalle bacheche social e produce episodi di intemperanza quotidiana documentati da quello che è ormai un nuovo genere: il video di insulti razzisti. I neri d’America si trovano oggi, dopo la “loro” prima presidenza, quella di Barack Obama, a confrontare antichi scheletri nazionali. Su questo sfondo si profila un momento di straordinaria vitalità creativa del cinema afro americano la cui rinvigorita militanza artistica è evidente in film come BlackKklansman l’’intenzionale cortocircuito in cui Spike Lee ricollega esplicitamente l’attuale rigurgito suprematista alle radici antiche e recenti dell’intolleranza razziale.

 

Il film è una satira ibrida che mescola genere, linguaggi e citazioni per raccontare un’indagine sul Ku Klux Klan condotta negli anni 70 da un poliziotto nero che con l’aiuto del collega bianco infiltra una sezione KKK guidata dal leader razzista David Duke. Un film che utilizza spezzoni di film: come Via Col Vento e Birth of a Nation di Griffith, referti del contorto albero genealogico del suprematismo. Spike cita Stokely Carmichael/Kwame Tura e fa sedere Harry Belafonte sul trono di vimini di Huey Newton, fondatore delle pantere nere. E chiude l’appassionata geremiade con un montaggio sui fatti di Charlottesville: l’omicidio di una ragazza antifascista perpetrato durante un raduno neo nazista e “neo confederato” nell’agosto del 2017.

 

Una monumentale invettiva contro l’America vomitata da Trump che allora si rifiutò di condannare i nazisti della Virginia – compreso proprio lo stesso Duke. “Il nostro mestiere di film maker ci impone di ricollegare il nostro presente al passato”, aveva affermato il regista alla presentazione del film a Cannes. “Ciò che sta accadendo oggi non è uscito dal nulla. Occorre ricollegarlo a ciò che avvenne negli anni 70. È il momento di andare a lezione di storia.” Lee non è il solo a ravvisare oggi una nuova sinistra attualità nel retaggio di violenze americane, quelle ad esempio documentate nel nuovo museo dedicato all’olocausto dei linciaggi (oltre 4000 fra il 1870 e il 1950), il Legacy Memorial aperto ad a aprile a Montgomery in Alabama.)

 

Uscito nel primo anniversario di Charlottesville, BlackKklansman è prodotto da Jordan Peele, già noto come autore del programma comico televisivo Key and Peele e l’anno scorso vincitore dell’oscar per la sceneggiatura grazie a Get Out. Quel film è un fanta-horror su di una setta di facoltosi bianchi che, dietro la facciata di illuminati liberal, usa corpi di ignari neri attirati nella loro comunità per estrarne un elisir di lunga vita. Un altro film metaforico che mescola generi e linguaggi. La satira grottesca di Peele infatti verte tutta su tematiche razziali che il trumpismo ha riportato a fior di pelle, e che riverberano fortemente in una società che fatica tuttora a metabolizzare il retaggio di schiavismo e segregazione.

 

Lo stesso registro satirico e surreale è stato impiegato da Boots Riley, rapper e artista di Oakland, per confezionare un altro feroce (ed esilarante) pamphlet politico. Sorry To Bother You è un indie movie autoprodotto con piccolissimo budget che racconta di un giovane nero senza impiego fisso che trova lavoro in una ditta di telemarketing. Qui fra gli “schiavi” cottimisti scopre di saper imitare perfettamente una voce “da bianco”, talento che gli permette di moltiplicare le vendite e venire promosso ai piani alti dove scoprirà di aver contratto un patto faustiano. I riferimenti al sistema delle piantagioni ed ai moderni dilemmi di razza ed identità sono ancora una volta evidenti anche se il regista californiano ammette che “l’argomento che a me interessa davvero è il capitalismo e lo scontro fra le classi sociali”. Un opera di agit-prop che prende di mira assai efficacemente la saldatura fra nuove intolleranze e neoliberismo corporativo.

 

Ne è casuale che Collins provenga dalla città Californiana che ha dato i natali alle Pantere Nere. Oakland, gemella afro americana di San Francisco, sull’altra sponda della famosa baia, sta diventando un centro vitale di cultura e cinema nero. Il caso più eclatante è forse quello di Ryan Coogler regista trentaduenne di Black Panther il film Marvel sul supereroe africano divenuto campione di incassi ed entrato fra i top ten della classifica mondiale di sempre per botteghino. Il fatto è di per se degno di nota per un film con regista e cast afro americano, ma Black Panther ha anche veicolato – pur nel format commerciale – temi di black pride che lo hanno posto al centro della conversazione politica proprio come era stato per l’originale serie a fumetti di Stan Lee. “Quella serie non aveva paura di affrontare tematiche molto concrete ispirandosi agli avvenimenti degli anni ’60,” spiega lo stesso Coogler. “E allo stesso modo (anche noi) abbiamo cercato di fare lo stesso riferimento alle problematiche attuali.”

 

Sullo stesso tema si è espressa anche Lupita Nyong’o che recita nel film. “Abbiamo cominciato a lavorare su questo film in un America che era molto diversa politicamente da dove siamo oggi e semmai oggi questa storia si carica di significati ancora più rilevanti: questioni di appartenenza, etnia e rapporti di forza. E mi pare che la cultura popolare sia un ottimo ambito in cui porsi queste domande.” Nella fattispecie una rappresentazione di un popolo africano mai soggiogato e di una rivalsa pan africana – un’immagine intrinsecamente liberatoria che spiega il successo straordinario del film.

 

Molti dei film della nuova onda black fungono infatti da dispositivo per contrapporre l’immaginario multietnico alla marea identitaria e suprematista. Lo scontro attuale si gioca proprio anche sul terreno di un immaginario da rivendicare e sottrarre alla feroce e strumentale frammentazione del frullatore di clip in internet. Cineasti come Peele, Collins, Barry Jenkins (Moonlight), Reynaldo Marcus Green (Monsters and Men), Nate Parker (Birth of a Nation), Dee Rees (Mudbound), George Tillman (The Hate U Give) , Justin Simien (Dear Whi te People) e altri annunciano la rinascita di uno sguardo politico nero nel cinema.

 

Il primo film girato da Coogler quando era ancora un autodidatta di 26 anni, è stato Fruitvale Station, la storia dell’uccisione gratuita del giovane nero Oscar Grant da parte della polizia in una fermata della metropolitana di Oakland. Quello stesso tragico avvenimento, che ha profondamente scosso la città a provocò allora settimane di proteste di studenti e Black Lives Matter, ha spinto altri due giovani autori della stessa città Daveed Diggs e Rafael Casal a girare Blindspotting un film esordito allo scorso festival di Sundance, un edizione in cui la violenza di polizia sui giovani neri era al centro di almeno tre pellicole. L’ambientazione di Blindspotting e in un certo senso la vera protagonista è una Oakland in profonda transizione socio economica per via dell’influenza della vicina Silicon Valley. Un processo di gentrificazione in cui vengono coinvolti due amici (gli stessi autori), uno nero in libertà vigilata, l’altro bianco ma cresciuto nello stesso ghetto proletario. Entrambi fanno fronte allo sconvolgimento economico e culturale del proprio quartiere ma in modi che in definitiva sono loro malgrado determinati dal colore della rispettiva pelle. Ma il tema centrale del film è quello dell’identità antagonista e della convivenza multietnica sullo sfondo di un neoliberismo onnivoro.

 

“È un momento intenso per molti di noi,” spiega Biggs. “credo che noi di Oakland, come Boots e Ryan Coogler, ci teniamo a raccontare storie che abbiano a che vedere con la nostra città.” E anche Oakland è stata di recente al centro di video razzisti caricati su Youtube, come quello in cui una donna bianca chiama la polizia e chiede agli agenti di allontanare alcune famiglie che cuocevano un barbeque in un parco pubblico perché “moleste”. “Quello che mi è piaciuto,” aggiunge Diggs, “è a stata la reazione della nostra città: organizzare un nuovo gigantesco barbeque collettivo – a cui ha partecipato anche Angela Davis!”

 

È stata una risposta intelligente che ha contrapposto un’immagine di amore ad una immagine di odio. Sono queste le immagini che mi interessano – quelle che possono aiutarci a trovare soluzioni costruttive all’odio che ci circonda. Se riusciamo con un film a produrre immagini che contribuiscano anche in parte a questa conversazione possiamo ritenerci molto fortunati”.

 

Spike Lee, il decano dei registi militanti, tiene a sottolineare come il “problema suprematista” non riguardi solo l’America ma tutti i movimenti identitari dell’onda populista occidentale. Ma è negli Stati Uniti che i prossimi mesi e anni potranno dirci se il suprematismo nazionalista avrà la forza di bloccare l’assimilazione multiculturale o se questo originale progetto americano è abbastanza radicato da resistere ai neofascismi emergenti e tornare a fungere da modello.

 

In questa partita la cultura – e il cinema – sono componente e indicatore importante. “Non lo dico io,” conclude Spike Lee, “lo dice l’ufficio del censimento. Anche se Agent Orange vorrebbe riportare il paese al passato coi suoi muri e con le famiglie che spezza al confine, il tempo ha continuato la sua marcia.”

 

 

 

 

 

Quaderno 17 / Settembre 2018