Quale futuro per la sinistra?

di Damiano Bardelli

 

In un pezzo pubblicato lo scorso 20 ottobre sulla Regione, Lorenzo Erroi si chiede se “magari” non ci voglia qualcosa di nuovo a sinistra. Ma non troppo nuovo, per carità: una nuova sinistra “progressista” che non serva “sbobba riscaldata” e che sia disponibile a “far saltare il banco” qualora sia necessario, ma che al contempo tenga conto delle “vie di mezzo”.

Una nuova sinistra cosmopolita e attenta “ai diritti umani e civili” che tolga terreno tanto al “nazionalismo protezionista” quanto ai “populismi di sinistra”. Una nuova sinistra, insomma, che sia uguale a quella vecchia: liberale e centrista, progressista appunto, e senza alcun legame con il socialismo (significativamente, le parole “socialismo” e “socialista” non vengono mai evocate da Erroi).

 

Siamo quindi di fronte a un esemplare paradosso orwelliano: il vecchio viene presentato come il nuovo, e il nuovo (nella fattispecie, la rilettura di Marx in un’ottica del XXI secolo) come il vecchio. Le categorie vengono manipolate e invertite in modo da ridurre l’orizzonte delle scelte politiche disponibili alla sinistra.

 

Nella confusione generale dell’articolo, Erroi getta in un unico calderone degli esempi che hanno ben poco in comune, dai Verdi bavaresi al Partito laburista di Corbyn. Da una parte, una formazione notoriamente centrista, filo-liberale e pro-UE, e dall’altra un partito che la stampa liberaldemocratica presenta abitualmente con un “populismo di sinistra”. Ma questo spaesamento non sorprende: la sinistra liberale, di cui Erroi fa chiaramente parte (forse inconsapevolmente, Gramsci docet), ha da tempo perso la bussola.

 

 

L’analisi del risultato delle elezioni bavaresi è particolarmente significativo. Dopo aver a malapena menzionato il tracollo della SPD, Erroi si concentra sulle ragioni del successo dei Verdi, facendone un esempio da seguire. Il partito, a suo dire “uscito dal radicalismo ecologista e dalle nostalgie extraparlamentari”, dovrebbe il suo successo alle sue posizioni centriste e pro-UE, oltre che all’aver “scommesso su volti nuovi” (altro grande mantra della sinistra liberale, soprattutto ticinese).

 

L’argomento, a dire il vero, non è molto originale, visto che riprende pari pari quanto scritto da ilPost.it (“Perché i Verdi sono andati così bene in Baviera”, 15 ottobre), il quale a sua volta riprende l’analisi del periodico di riferimento della sinistra liberale occidentale, Politico (Zia Weise, “The Rise and Rise of Bavaria’s Greens”, 12 ottobre). Peccato però che si tratti di una lettura aprioristica, oltre che di una manipolazione che presenta il futuro della sinistra come ridotto alle stesse politiche neoliberali che ha portato avanti negli ultimi trent’anni.

 

 

Si pensi per esempio alla presunta svolta centrista dei Verdi bavaresi. Se mai questi ultimi sono stati degli “ecologisti radicali”, il cambiamento nella loro linea politica non è certo stato recente, né a livello statale né a livello federale. Già all’inizio degli anni 2000, gli ecologisti tedeschi hanno dato un impulso determinante alle politiche di privatizzazione, di deregolamentazione del mercato del lavoro e di erosione del servizio pubblico portate avanti dal governo di coalizione con la SPD sotto la guida di Schröder. Se il successo dei Verdi bavaresi stesse in un cambiamento di paradigma, la loro crescita sarebbe dovuta avvenire diversi lustri fa.

 

Se mettiamo da parte i paraocchi della sinistra liberale, le ragioni del successo dei Verdi diventano più evidenti: in uno stato tradizionalmente conservatore come la Baviera, dove da sempre il baricentro politico è spostato considerevolmente a destra e dove il bacino elettorale della sinistra è rappresentato principalmente dalla classe media-superiore istruita, i voti persi da SPD e CSU non potevano che essere intercettati da una formazione centrista come i Verdi. Il successo delle posizione centriste dei Verdi bavaresi è quindi dettato dal contesto socio-economico nel quale si muovono, e non dalla bontà insita nelle loro idee.

 

Il dato rilevante e generalizzabile a livello continentale, invece, è che la socialdemocrazia sta diventando insostenibile agli occhi dell’elettorato di sinistra. Dopo aver governato per anni come la destra (anche in Svizzera e in Ticino, si pensi alla questione degli sgravi fiscali), i partiti socialdemocratici hanno perso la loro ragion d’essere e hanno smesso di rappresentare un’alternativa allo status quo.

 

In funzione del contesto socio-economico, l’elettorato cerca nuove alternative. Dove il livello di vita è buono e il baricentro è storicamente spostato a destra, come in Baviera, il voto degli scontenti viene intercettato da partiti centristi come i Verdi. Dove la situazione socio-economica è più drammatica (come nell’Europa mediterranea o nel Regno Unito e negli Stati Uniti, dove le politiche neoliberali hanno devastato il tessuto sociale), i voti vengono intercettati da quelle formazioni radicali che hanno riscoperto il socialismo in un’ottica del XXI secolo. Le recenti elezioni comunali in Belgio, per esempio, sono state teatro del grande balzo in avanti del Partito del lavoro (PTB/PVDA), in particolare in Vallonia, regione per certi versi molto simile al Ticino sia sul piano socio-economico che su quello culturale.

 

 

Non c’è dubbio, insomma, che a sinistra ci voglia qualcosa di nuovo, anche in Ticino. Ma qualcosa di nuovo a livello di contenuti, e non di immagine e di volti. La sinistra liberale ha ampiamente dimostrato di essere alla deriva e di non essere in grado di ritrovare la rotta. I vertici del PS hanno purtroppo fatto naufragare da tempo il loro partito (non per niente, stando alle ultime informazioni, la lista “socialista” al Consiglio di Stato sarà composta per tre quinti dalla sinistra liberale, pro-sgravi fiscali).

 

È ora che la sinistra socialista torni al timone, alla guida di una nuova formazione in grado di muoversi nelle acque turbolente di quest’epoca, con il supporto degli strumenti analitici (sempre vivi e fecondi) forniti da Marx, e senza farsi distrarre dalle sirene liberaldemocratiche della stampa internazionale e dei nostri quotidiani.