Brasile, Bolsonaro, Sudamerica

Red

 

Vi proponiamo l'articolo di Roberto Livi scritto tra il primo e il secondo turno delle presidenziali brasiliane. Oggi sappiamo che Bolsonaro ha vinto l'elezioni ma l'analisi di Livi sul Brasile e sull'America Latina resta molto interessante.

 

 

di Roberto Livi

 

 

L’America latina vive un’epoca di pessimismo democratico che si coniuga –nonostante la retorica neoliberista- con una virata a destra del panorama politico. Le brutte notizie si susseguono.

 

Alle manovre per abbattere il governo eletto del presidente venezuelano Nicolás Maduro - dalla denuncia al Tribunale penale internazionale "per lesa umanità", alle minacce di intervento armato “umanitario” - si aggiunge il lungo elenco di assassinii di leaders sociali (circa 400 in due anni) in Colombia, dove il nuovo presidente di destra Iván Duque ha denunciato il trattato di pace firmato nel 2016 con l’ex guerriglia delle Farc, di modo che circa tremila guerriglieri hanno ripreso le armi e la produzione di coca è triplicata. I narcos continuano il massacro di innocenti in Messico e la lawfare – la guerra giuridica asimmetrica delle magistrature legate alle oligarchie del subcontinente – ha portato all’incarcerazione o alla messa in stato di accusa dei principali leaders dello schieramento progressista, dagli ex presidente del Brasile, Lula Da Silva e Dilma Roussef, ai colleghi dell’Ecuador, Rafael Correa , e dell’Argentina, Cristina Fernández de Kirchner. Infine il candidato dell’ultradestra brasiliana, Jair Bolsonaro, si è imposto al primo turno delle presidenziali brasiliane col 46% dei voti contro il 29% del candidato progressista Fernando Haddad.

 

Non è casuale che tutto questo accada quando – secondo le cifre del Latinobaròmetro – l’appoggio popolare alla democrazia ha perso otto punti in i meno di dieci anni, dal 61% nel 2010 al 53% nel 2017. Allo stesso tempo la proporzione di chi si dichiara indifferente verso un governo democratico e uno non democratico è aumentata di nove punti nello stesso periodo: oggi un quarto della popolazione dell’America latina non sembra far differenza tra democrazia e governo autoritario.

 

 

E’ quanto è successo in Brasile. Il 63enne, ex capitano, Jair Bolsonaro è stato in testa nella campagna elettorale del gigante sudamericano con un discorso caratterizzato da razzismo, misoginia e omofobia e rivendicando la legittimità della dittatura militare (1964-1985). Ha proposto soluzioni radicali per i problemi di sicurezza, come la castrazione chimica per gli stupratori, l’uso della tortura e la legalizzazione dell’uso delle armi per difesa personale. Ha affermato che non avrebbe riconosciuto l’esito delle elezioni in caso di mancata vittoria. Insomma ha promesso di governare con pugno forte, senza rispetto per le regole democratiche e lasciando carta bianca alle classiche misure neoliberiste già messe in campo dal presidente golpista Michel Temer.

 

Bolsonaro ha dato voce alle paure della classe media –il suo elettorato base è composto da giovani benestanti bianchi- : una situazione economica che stenta a riprendersi da una severa recessione, un aumento continuo dell’indice di violenza – nel 2017 63.880 omicidi – 175 al giorni – e circa 60.000 stupri. A questo si somma il discredito di tutta la classe  politica: solo per lo scandalo della corruzione legata alla compagnia statale di petrolio Petrobras sono sotto investigazione 415 politici di 26 partiti (su un totale di 35) in 21 stati (sui 36 della federazione brasiliana). Negli ultimi giorni della campagna lo hanno appoggiato apertamente esponenti della finanza, imprenditori –del settore industriale che agricolo- militari, potenti congregazioni evangeliche e gran parte dei mass media che, come Rete Globo, sono stati i maggiori accusatori degli ex presidenti (del Pt) Dilma Roussef e Lula Da Silva.

 

Bolsonaro ha diviso il paese. Le inchieste indicano che riceve un tasso di rifiuto del 45% degli aventi diritto al voto, soprattutto delle donne. Toccherà al candidato del Partito dei lavoratori (Pt) Haddad, giunto secondo, raccogliere questo rifiuto e costruire un fronte di tutte le forze che difendono la democrazia nel ballottaggio del 28 ottobre, che si presenta come l’elezione più polarizzata della storia del Brasile. In caso di vittoria di Bolsonaro vi sono seri pericoli per la democrazia in Brasile e di riflesso per il subcontinente latinoamericano.

 

E’ dunque tempo di accendere i segnali d’allarme. La minaccia per i governi democratici oggi in America latina non viene dai generali ma dai giudici e/o – lo affermano Steven Levitsky e Daniel Ziblat nel loro libro “Come muoiono le democrazie” – da politici che una volta eletti attentano alle istituzioni democratiche.

 

Come è successo in Brasile con la nomina a presidente di Michel Temer, in Perù con l’ex presidente Pablo Kuczynski , costretto a dimettersi per corruzione lo scorso marzo, in parte con Lenín Moreno, che in in Ecuador sta smantellando la politica del suo predecessore Correa, tanto che in agosto l’Ecuador è uscito dall’Alleanza bolivariana per i popoli (Alba), e di sicuro con Bolsonaro, in caso di sua vittoria nel ballottaggio.

 

 

Le grida d’allarme però vengono anche da coloro che spesso sono responsabili di questa situazione. E che ripropongono vecchie ricette neoliberiste che in questo subcontinente sono spesso state associate a governi ben poco hanno di democratico. Va in questa direzione il presidente argentino Mauricio Macri che per far fronte al disastroso stato dell’economia ha concordato a settembre con il Fondo monetario internazionale un prestito di 57 miliardi di dollari, il più grande mai concesso dal Fmi - che peraltro è l’organismo in assoluto più odiato dagli argentini i quali ricordano ancora con ansia e timore il crollo economico del 2001. Il governo Macri si è impegnato a ridurre le spese e l’emissione di moneta e ad aumentare le tasse; la Banca centrale ha fatto crescere i tassi di interesse al livello più alto del mondo mentre il peso argentino si <è ridotto a carta straccia>, secondo il noto analista Pablo Rossi.

 

Misure che comportano l’aumento della disoccupazione e della povertà, mentre l’inflazione galoppa al tasso del 6-7% al mese. Il prestito del Fmi è stato favorito dagli Usa – che di fatto controllano l’organismo – perché l’Argentina è una delle pedine fondamentali nella guerra dichiarata dalla Casa Bianca al Venezuela bolivariano. Buenos Aires è stata – assieme al Cile del presidente di destra Sebastián Piñera, al Perù e alla Colombia – la promotrice della richiesta di intervento del Tribunale penale internazionale contro il governo Maduro.

 

Ma le dure misure del governo argentino hanno provocato un’altrettanto dura reazione dei sindacati con scioperi e proteste di strada che coinvolgono da settimane praticamente tutti i settori della società. La popolarità di Macri è in caduta libera (sotto il 31% secondo le ultime inchieste) e la probabilità che possa vincere le elezioni presidenziale di fine 2019 viene giudicata minima anche dai mercati, che non escludono nemmeno che il governo Macri cada prima delle prossime elezioni.

 

In questo quadro di crisi e tensione sociale ritorna in ballo l’ex presidente e leader peronista Cristina Fernández, contro cui i giudici si sono scatenati con una serie di accuse -di per aver ricevuto “bustarelle” per opere pubbliche e di illecite manovre monetarie negli anni del suo mandato presidenziale tra il 2007 e il 2015. L’ex presidente ha negato la validità di tali accuse che – come ha dichiarato – scatenata a livello latinoamericano da giudici legati alle oligarchie economico-politiche.

 

 

Le crisi in cui si dibattono i due grandi sudamericani, come pure Cile, Colombia e Perù – ovvero la spina dorsale del Gruppo di Lima, un’alleanza di paesi latinoamericani con governi di destra o conservatori (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perú, Guyana, Santa Lucía e Canada) creata su “ispirazione” degli Usa per isolare il Venezuela – confermano le note dolenti per la democrazia in America latina. E i responsabili per questa situazione sono i governi di destra.

 

Una nota di speranza viene invece dal Messico, il terzo grande paese latinoamericano. Lo scorso luglio il leader progressista Andrés Manuel López Obrador è stato eletto presidente mentre la sua formazione politica, Morena, ha conquistato la maggioranza dei seggi in Parlamento e dei governatori. Amlo, come viene chiamato il nuovo presidente dalle iniziali del suo nome, entrerà in carica il primo dicembre. Nei suoi interventi ha promesso una profonda trasformazione del Messico per liberarlo dai due grandi mali “storici”: la piaga della corruzione e dei brogli che hanno contraddistinto per decenni i vari governi precedenti e la violenza dei narcos e in generale della criminalità organizzata. Secondo la denuncia di una serie di organizzazioni civili, il Messico registra i maggiori livelli di violenza dal 1929.

 

Amlo ha messo in chiaro che la priorità del suo mandato sarà "ascoltare la voce degli umili" e ha annunciato un piano di austerità basato su di 12 riforme per mettere in cantina gli "abusi" privilegi delle vecchie classi politiche dominanti. Inoltre intende "preservare la sovranità nazionale", con evidente riferimento alla politica aggressiva – e umiliante – del suo potente vicino del Nord. López Obrador ha informato che è intervenuto nelle trattative per concretizzare il nuovo trattato di libero commercio tra Messico, Usa e Canada concluso alla fine di settembre il Usmca che sostituisce il vecchio Nafta, denunciato dal presidente Donald Trump perché "contrario agli interessi degli Usa". L’accordo è stato firmato dal “vecchio” presidente Peña Nieto, che ne assume la responsabilità politica, mentre Amlo si varrà dei vantaggi economici del trattato.

 

 

In questa situazione preoccupante per la tenuta democratica dell’America latina sarà decisivo il futuro prossimo del Venezuela. È chiaro da mesi infatti che l’amministrazione di super falchi di Washington ha nel mirino il presidente Maduro e il suo governo bolivariano. Oltre alla guerra economico-finanziaria – iniziata già dal presidente Obama – è già in atto quella “giuridica”: cinque Stati latinoamericani e il Canada hanno chiesto al Tribunale penale internazionale di mettere sotto accusa Caracas per lesa umanità. Altri paesi dell’Ue – tra i quali la Francia – sono decisi ad accodarsi.

 

Si rafforza insomma il clima di "emergenza umanitaria" che richiede un intervento internazionale. Anche militare, come hanno ventilato prima il presidente Trump e più recentemente il segretario dell’Organizzazione degli statati d’America (Osa) Luis Almagro. Truppe colombiane e brasiliane sono già schierate ai confini accrescendo l’allarme per una “guerra umanitaria” che farebbe rivivere i disastri dell’ex Jugoslavia. La caduta del governo di Maduro sarebbe un duro colpo per tutto lo schieramento progressista in America latina, già in difficoltà. Soprattutto per Cuba, proprio mentre la nuova generazione rappresentata dal presidente Miguel Díaz- Canel è impegnata a portare avanti una serie di riforme – prima della Costituzione, poi quella elettorale e in seguito monetaria – per dare un impulso al socialismo cubano.

 

 

 

 

 

Quaderno 18 / Novembre 2018