Noam Chomsky: «Il sovranismo è la cura sbagliata a un problema reale»

di Luca Mastrantonio

 

Il grande linguista americano compie 90 anni il 7 dicembre. Da intellettuale di sinistra radicale, ci ha spiegato le ragioni dell’ondata sovranista e il motivo per cui è sbagliato dare del fascista ai propri nemici come Trump (a suo giudizio, più pericoloso di Hitler). Ci rivela perché all’anagrafe risultava donna e difende Woody Allen dalle accuse del #MeToo.

 

Noam Chomsky, 89 anni, è il maggior linguista vivente (teorico della grammatica generativa) e un punto di riferimento della sinistra internazionale

 

PERCHÉ IL PIÙ GRANDE LINGUISTA DEL MONDO, Noam Chomsky, si ricorda ancora di quando da bambino vide Joe DiMaggio allo stadio? E voi avete mai pensato di scambiare il vostro fratellino con una scimmia? Com’è possibile diventare anarchici a New York? E sapete perché non ha senso urlare «fascista» contro Trump? E perché l’ex presidente brasiliano Lula rischia di fare la fine di Gramsci? Infine, si può condannare in nome del movimento #MeToo un grande regista come Woody Allen? Le risposte ad alcune di queste domande si ricavano dalla lettura di Venti di protesta, che attraverso varie interviste con David Barsamian (Ponte alle Grazie) suggerisce come resistere ai nemici della democrazia, secondo Chomsky. Siamo partiti da questo nuovo libro, nella nostra conversazione telefonica con Chomsky, che compie 90 anni il prossimo 7 dicembre. Giorno in cui, nel ventesimo secolo, «due grandi disastri» hanno colpito gli Stati Uniti, ironizzava l’amico giornalista, l’irlandese Alexander Cockburn: l’attacco giapponese a Pearl Harbor (1941) e la nascita di Chomsky (1928) a Filadelfia, dove l’impiegato del Comune sbagliò a trascrivere il nome completo. Credeva che Noam fosse una variante di Naomi, nome femminile, così femminilizzò Avram in Avrane: «Sul mio certificato di nascita è scritto Avrane Naomi Chomsky», racconta «l’ho scoperto quando mi serviva una copia. Errori di trascrizione. D’altronde uno dei motivi che m’ha appassionato alla linguistica fu la scoperta che la Bibbia era stata tradotta male, già dalla prima frase: non è “In principio Dio creò”, ma “Al principio della creazione era il caos”».

 

 

 

Alle elementari lei andò a vedere una partita tra i New York Yankees e i Filadelfia Athletics. Un evento che le rimase impresso, ne ha scritto nella Fabbrica del consenso analizzando le interazioni tra giocatori e pubblico. Era con un amico e un’insegnante a lei molto cara.

 

«Sì. Eravamo tutti innamorati di lei, Miss Clark. Eravamo seduti ai posti più economici, sugli spalti proprio dietro Joe DiMaggio. Stavamo vincendo noi, poi gli Yankees hanno ribaltato il risultato. Era strano, perché noi tifavamo Filadelfia, ma vedere da vicino Joe DiMaggio e Lou Gehrig ci dava eccitazione, quasi meglio di una vittoria. La delusione arrivò qualche mese dopo; Miss Clark sposò l’insegnante di arte».

 

 

 

Altro microtrauma dell’infanzia, che emerge dal libro, la nascita di suo fratello minore, David. Com’era il vostro rapporto da piccoli?

 

«Pieno di scetticismo, da parte mia, anche se poi siamo diventati grandi compagni di giochi. Il problema è che gli adulti ti creano aspettative e tu non hai ancora messo in conto l’irrazionalità umana. Mia madre mi disse che sarebbe stato bello avere un fratellino con cui giocare. Ma quando arrivò David aveva solo un’attività: attirare l’attenzione, piangere... Poi io venni sfrattato dalla mia stanza e finii nello studio di mio padre, sul divano. Una volta vidi una suonatrice di organetto con una scimmia, proprio brava, e chiesi a mia madre se potevamo scambiarla con mio fratello. Lei disse no con una spiegazione poco chiara. Ecco lì ho iniziato ad essere scettico verso gli adulti, l’irrazionalità: lo scambio aveva senso».

 

 

 

Fu precoce anche la scoperta dell’anarchismo.

 

«Ho subìto il fascino degli anarchici spagnoli esuli negli Usa. Tra gli anni Trenta e Quaranta ero adolescente, avevo undici o dodici anni, prendevo il treno per andare dai miei parenti a New York, da solo, nei weekend. Giravo per la città e finivo tra Union Square e Fourth Avenue, dove c’erano librerie di seconda mano gestite da immigrati, tra cui i profughi della guerra civile spagnola, e molti erano anarchici. Mi sembravano vecchi e saggi, anche se magari avevano massimo 30 o 40 anni, ma avevano un sacco di storie da raccontare, dentro e fuori i libri».

 

 

 

Lei il prossimo 7 dicembre compie 90 anni. Che regalo vorrebbe per il suo compleanno?

 

«Va bene qualsiasi cosa, tranne un secondo mandato di Trump! Quindi spero gli vadano male le elezioni di metà mandato. La speranza sono i giovani politici come Alexandria Ocasio-Cortez che hanno preso l’eredità di Bernie Sanders e del suo tentativo di indirizzare gli Stati Uniti verso una democrazia sociale funzionante per il lavoro, la salute e l’istruzione. Lui sì che ha rappresentato la rottura con l’ultimo secolo di storia politica americana, molto più di Obama. Negli Usa le elezioni sono praticamente comprate, ed è possibile prevedere il risultato di una consultazione, sia presidenziale che del Congresso, con precisione quasi infallibile, semplicemente osservando variabili quali lo stanziamento di fondi per la campagna elettorale. Sanders ha iniziato la sua corsa praticamente da sconosciuto, non aveva nessun sostegno da parte dei media, se veniva menzionato era solo per essere criticato o denigrato, non aveva assolutamente nessun sostegno economico da ricchi privati o grandi aziende, ed è comunque arrivato molto vicino a vincere le elezioni primarie del partito democratico. E probabilmente avrebbe anche vinto, se non fosse stato per le macchinazioni dei manager della coalizione Obama-Clinton».

 

 

 

Oggi, dopo un decennio di grandi movimenti di sinistra radicale no-global, al potere sono andate le destre, che sono fortemente anti-globaliste. Un paradosso?

 

«Mi sembra una sintesi estrema, non accurata: è successo e sta succedendo altro. I vecchi programmi di “austerity” liberali sono stati rifiutati da alcune formazioni centriste, e in alcuni casi sono crollati. Al di fuori dei centristi sono emerse le ali, in entrambe le direzioni. Negli Usa Sanders, poi Trump; e qualcosa di simile a sinistra è successo con Jeremy Corbyn in Inghilterra. In Europa il centro-destra e il centro-sinistra, che spesso si assomigliano, hanno subìto un declino o sono scomparsi, e gli elementi di contorno ora dominano. Non è colpa o merito della destra se il centro è venuto meno. Qualcosa di simile è avvenuto in Baviera, pochi giorni fa, dove il partito che è cresciuto di più sono i Verdi».

 

 

 

Ora in Europa è la stagione dei sovranisti.

 

«Beh, è comprensibile la pressione per la sovranità nazionale, uno dei principali difetti della Ue, un problema reale. Le decisioni basilari non vengono prese a livello nazionale, dove le persone hanno modalità di partecipazione, ma dai burocrati di Bruxelles, persone non elette che non rispondono all’opinione pubblica, operano con le banche del Nord che controllano i loro movimenti: ciò porta a scelte dannose nei confronti delle popolazioni. C’è uno studio di un economista americano, Mark Weisbrot, su come il Fondo Monetario Internazionale nelle controversie con in singoli Paesi voglia ridurre i benefici sociali e il welfare, aumentando il profitto privato. La risposta corretta però non è tornare alle banche nazionali, come dicono i sovranisti, bensì mantenere i vantaggi dell’Unione in un’ottica transnazionale, eliminando il trasferimento della capacità decisionale a rappresentanti non eletti, verso un sistema più democratico e partecipativo nella vita economica, sociale e politica dei Paesi, ed è lo scopo del movimento DiEM25, il Movimento per la democrazia in Europa 2025, di Yanis Varoufakis e Corbyn».

 

 

 

Lei è molto duro con Trump, ma ha più volte ribadito che non va definito “fascista”.

 

«Il termine “fascista” ormai viene usato per etichettare comportamenti malvagi, violenti e di repressione, per insultare i propri avversari politici, ma spesso con troppa leggerezza: perché il fascismo era un movimento con politiche precise, economiche e sociali, che lavorava in stretta connessione con il potere centrale, occupando lo Stato. Non è quello che sta succedendo nell’America di Trump, che mi colpisce per un altro aspetto: attira l’attenzione dei media, sia di chi lo appoggia ieri come oggi, sia di chi lo attacca, come i media liberali che compilano la lista delle sue bugie. Lui sta ottenendo due obiettivi, il consenso dell’elettorato reale e quello dell’elettorato votante. Il primo è composto da potenti uomini d’affari e ricchi privati, e include anche gli interessi dei proprietari immobiliari. Sono i poteri a cui Trump è asservito. Però, poiché gli servono anche i voti delle masse, punta su sentimenti patologici, tipici di periodi in cui le persone sono arrabbiate, risentite, sconfortate per motivi assolutamente plausibili. E questo è l’elettorato che lo vota».

 

 

 

I Democrat hanno trascurato la classe operaia bianca.

 

«Sì, e lui è riuscito a intercettare il loro voto, anche se il suo elettorato reale è rappresentato dalla fazione più selvaggia e reazionaria della finanza, che vuole meno tasse e aumentare il “profitto”, solo che lo chiamano “livello occupazionale”; ma è “profitto”. Il taglio delle tasse però crea un deficit sostanziale che giustifica il taglio della copertura sanitaria, delle spese per l’istruzione, dove aumenta lo spazio per i privati, e quindi sarà sempre più un Paese per ricchi. Insomma Trump mantiene per ora il sostegno di fan che lo adorano, anche se non sono ricchi, perché lui finge di lavorare nel loro interesse, anche se non è vero. Questo è un risultato impressionante. Ma parlare di fascismo è dargli troppo peso ideologico, lui non va oltre l’ego dei ricchi e la nostalgia dell’americano medio, cui promette di far tornare grande il suo Paese».

 

 

 

Lei in un articolo su The Intercept ha invece parlato apertamente di fascismo per il modo in cui il Brasile, dove è stato poco prima dell’elezione di Jair Bolsonaro, ex capitano dell’esercito, sta trattando Lula; l’ex presidente è in carcere dopo una condanna per corruzione, che lei ha definito eccessiva, sproporzionata rispetto alle prove.

 

«Il settembre scorso, mentre si svolgeva la campagna elettorale per la presidenza, ho incontrato Lula, con mia moglie Valeria, nel carcere federale di Curitiba, dove è prigioniero: è confinato, senza contatti sostanziali con il mondo esterno, un ergastolo virtuale. Si sono voluti assicurare che il popolo brasiliano non potesse sapere nulla di lui, e il giudice che ha vietato di farlo intervistare mi ha fatto tornare in mente la condanna di Antonio Gramsci per volere del governo fascista di Mussolini, che dichiarò: “Dobbiamo impedire al suo cervello di lavorare per 20 anni”. L’esclusione di Lula dalla corsa, l’impossibilità di far sapere al Paese il suo pensiero, ha favorito Bolsonaro, un autoritario duro e brutale e un ammiratore della dittatura militare, che ripristinerà “l’ordine”».

 

 

 

Anche il Venezuela di Maduro imprigiona, a volte elimina fisicamente, i suoi nemici. Lei sul Venezuela ha cambiato giudizio già nel 2011. Prima sosteneva Chávez.

 

«Hugo Chávez ha provato realmente a portare cambiamenti positivi sociali per il popolo e il Paese, ma ha imposto questo progetto dall’alto, non l’ha fatto partire dalla base, come deve avvenire in una vera rivoluzione. Poi non ha trasformato in sviluppo agricolo e industriale i ricavi del petrolio, anzi, con il chavismo il Paese è diventato più dipendente dal mercato del petrolio, con esiti disastrosi, anche perché c’è molta corruzione e incompetenza».

 

 

 

Chávez è stato coraggioso ad andare contro gli Stati Uniti, ma forse l’appoggio di cui ha goduto presso alcuni partiti e intellettuali di sinistra seguiva una logica da Guerra fredda. Il nemico del mio nemico è mio amico.

 

«Oggi il pericolo non è la bomba atomica, ma la catastrofe climatica. Abbiamo vissuto sotto l’ombra nera del nucleare fino alla Guerra fredda. È un miracolo che siamo sopravvissuti. Ma non so se ci sarà un secondo miracolo, con l’imminente catastrofe climatica e il cinismo di Paesi come gli Usa. Un esempio? Il documento prodotto dal Dipartimento dei trasporti dell’amministrazione Trump propone l’eliminazione dei limiti delle emissioni di auto e autobus che usano combustibili fossili: “Tanto siamo destinati alla catastrofe”. A fine secolo, la temperatura globale sarà aumentata di 3, 4 gradi, i mari si saranno innalzati, moriranno molte persone. Ma i trumpisti vanno avanti: “Le emissioni dei carburanti pesano per un minima parte, quindi perché non guidare liberamente finché possiamo?” Dicono: “Godiamoci la vita finché il pianeta non sarà distrutto!” La cosa folle è il loro assunto di fondo: “Sono tutti disonestamente pazzi come noi! Non faremo niente per affrontare questo disastro imminente e nessun’altro lo farà, siamo finiti quindi divertiamoci”. è frutto della burocrazia, sembra un omaggio a Kafka! Non credo si possa trovare un documento nella storia umana che raggiunga questo livello di malignità ultimativa».

 

 

 

Neanche il Mein Kampf?

 

«No, perché non puntava alla distruzione totale della vita sociale organizzata. In America si sfa diffondendo una cultura negazionista sul clima, attraverso una lingua simile alla neolingua di 1984 di Orwell, il bi-pensiero, il concepire in un solo concetto due verità contraddittorie. Lo chiamano “pensiero critico”, ma è negazionismo. L’American Legislative Exchange Council è un’associazione che propugna nella scuola pubblica questo tipo di “pensiero critico”: se un anno si parla dei pericoli dei cambiamenti climatici, poi bisogna trovare spazio per le tesi di coloro che sono contrari a questa teoria. I ragazzi imparano a pensare criticamente dando lo stesso peso all’opinione del 99% degli scienziati e a quella di cinque o sei scettici che lavorano per grandi aziende? è il bi-pensiero di Orwell. Vale anche per altri casi: se ti esprimi negativamente sui governanti di Israele vieni tacciato di antisemitismo».

 

 

 

Spesso le hanno detto che lei odia Israele.

 

«Succede dai tempi del profeta Elia, criticava il Re Acab e gli fu chiesto perché odiasse Israele».

 

 

 

Secondo lei è giusto imporre dei limiti alla satira? Penso alla vignette contro l’Islam.

 

«Non sono un assolutista, la libertà di espressione e di satira va limitata solo se lo scopo è provocare una azione illegale. Altrimenti va difesa sempre, anche se non condividi. Prendo un caso estremo, Charlie Hebdo, la cui redazione è stata vittima di un attentato terroristico per le vignette in cui si ridicolizzava Maometto. Nella satira distinguo il prendere in giro i potenti, che va sempre bene, e l’umiliare gli oppressi, è ignobile. Se la satira francese ridicolizza i nordafricani fuggiti da regioni martoriate dalla Francia, beh, è ignobile. è infantile volgarità, ma va comunque tutelata la libertà di satira, è un valore altissimo».

 

 

 

Cosa pensa del movimento neo-femminista #MeToo?

 

«Non dovrebbe essere, e non è, una storia legata solo a Hollywood. Si tratta di minacce pericolose e reali che le donne comuni, soprattutto le donne, ma non solo, subiscono sul posto di lavoro, nella loro comunità, in famiglia. Problemi veri e importanti che vanno affrontati con onestà, la società deve farci i conti. C’è però un pericolo: il pericolo che certe accuse possano distruggere la vita di una persona, la reputazione e la carriera, anche se non sono confermate. La difesa di certi diritti non può ledere altri diritti, come quello a difendere la propria innocenza. Si tratta di una linea sottile, ma è molto importante rispettarla».

 

 

 

Con questa ondata moralista il rischio è arrivare a condannare i film di Woody Allen per delle accuse non provate di molestie sessuali.

 

«Le accuse a suo carico sono estremamente difficili da provare, sono state presentate in tribunale, e poi scartate. Bisogna essere molto cauti con accuse di questo tipo, possono distruggere la vita e la carriera di una persona. Woody Allen è l’esempio perfetto per capire questi rischi».

 

 

 

 

 

Tratto da Corriere.it