Intervista /Arnaldo Alberti

di Franco Cavalli

 

Nella bella prefazione al suo ultimo libro, Dick Marty sottolinea con forza il fatto che lei, pur criticandolo spietatamente, rimane fedele al PLR. Visto lo spostamento a destra di quest’ultimo, che lei sottolinea ad ogni piè sospinto, non ritiene che sarebbe giusto a questo punto passare ad altri lidi?

 

A quali lidi? Dopo il crollo del muro di Berlino, il grande capitale e la finanza che regolano il mondo “occidentale” si sono ripromessi d’annientare ogni velleità di difesa e di rispetto per le conquiste della tanto vituperata “borghesia” alla quale paradossalmente, da come si vota e si configurano le maggioranze, sembra che tutti vi appartengono, o almeno s’illudono d’appartenere. Borghesia che, con il ceto medio, è la fondatrice dello stato democratico e la garante del controllo della politica sull’economia. Oggi siamo al punto che l’economia, intesa come stretta alleanza dei ricchi imprenditori, controlla la politica e allo Stato, anche da noi, lentamente e meticolosamente con gli sgravi fiscali, si tolgono i mezzi indispensabili per far fronte al suo ruolo costituzionale. Si dimentica che la nostra Carta fondamentale, nella premessa, dichiara che: “Consci che libero è soltanto chi usa della sua libertà e che la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri”. I continui sgravi fiscali ed i tagli alle spese sociali, invece di seguire il dettato costituzionale vanno nella direzione opposta: arricchire i già ricchi e d’impoverire e ridurre in miseria i poveri.

 

 

 

In molti dei suoi contributi lei dà un’immagine quasi idilliaca del PLR del passato. Se è vero che è stato il PLR a creare la Svizzera moderna, è anche vero che era un potere assolutamente borghese, che per esempio ha stroncato con la violenza lo sciopero generale del 18 e ha mandato l’esercito a sparare a Ginevra sui manifestanti di sinistra. Ed era questo stato borghese che ci ha schedati e che ha organizzato la P26. La sua nostalgia del passato non è quindi legata più ad una visione ideologica del liberalismo svizzero che alla cruda realtà?

 

Per evitare fatue e inutili polemiche, considerata la profonda crisi in cui oggi si trova la pratica del governo e il suo esercizio, chiarisco la genesi e lo stato del mio concetto politico. Sono un non credente che, come suggerisce Erich Fromm, cerca di vivere religiosamente. Perciò considero con grande rispetto ed ammirazione le opere e i testi fondanti delle religioni. Lo stesso atteggiamento lo tengo nei confronti dei partiti storici della Svizzera, considerandoli edifici culturali complessi ed ammirevoli, tanto nei testi a cui si ispirano quanto nell’azione politica quando è costruttiva e positiva. I partiti sono formazioni composte da persone singole. Il giudizio, se si vuole dare, arrogandosi magari un diritto fuori luogo e fuori tempo, lo si deve fondare sulla considerazione di tutta la politica perseguita dal PLRT nella sua storia, sia dal lato positivo sia da quello negativo. Condannare un partito per uno degli elementi all’origine proprio della distruttività della sinistra che ha rinnegato il marxismo, ha confuso lo stalinismo col comunismo, sempre si divide e perde pezzi per sue diatribe interne riguardanti la purezza della “fede”. Per quanto concerne le schedature, col senno di poi e considerato il vizio diffuso di un’intera popolazione che si scheda da sola e volontariamente sui social controllati dagli Stati Uniti, su quell’episodio così come sulla P26 è meglio tacere per non cadere nel ridicolo.

 

 

 

Anche in Ticino il passato liberale (pensiamo all’ala filofascista) è forse meno limpido di quanto lei descriva. La stessa alleanza di sinistra era forse soprattutto una “scappatoia elettorale”, che eternizzando lo scontro con l’avversario storico conservatore, permetteva di mantenere facilmente il potere?

 

Non si può rivedere la storia e modificarla per scopi a proprio piacimento. Perché, per imbastire fondamenti a sostegno di tesi strampalate come quella della “scappatoia elettorale” si omette di considerare la scissione del PLRT. Il gruppo dei filofascisti non era un’ala del Partito Liberale Radicale Democratico Ticinese, nato dopo la scissione dei liberali, ma un partito a sé. Prima di trarre delle conclusioni superficiali e fantasiose che offendono, oltre gli uomini che ne furono protagonisti, la storia stessa, si dovrebbe leggere il libro scritto dal figlio di Emanuele Macaluso, esponente del Partito comunista italiano e direttore de “L’Unità”. La Storia del Partito Liberale radicale ticinese scritta da Pompeo Macaluso e pubblicata da Dadò nel 2004 ricorda un’epoca particolarmente travagliata, tra rigurgiti fascisti, tracolli economici e guerre. Macaluso rievoca i fatti, gli uomini e gli aneddoti che contribuirono in maniera decisiva a preservare la libertà dei ticinesi durante la guerra e dai quali prese avvio quel processo di mobilitazione sociale promossa dalla storica alleanza di sinistra che in pochi anni condurrà il Ticino sulla via del progresso e della modernità. Lo storico e insegnante di liceo Pompeo Macaluso, nato a Palermo nel 1950, si trasferì in Ticino nel 1973 e aderì al Partito socialista autonomo insieme a Tita Carloni, Pietro Martinelli e Werner Carobbio.

 

 

 

Dove colloca e che spessore politico dà all’azione dei protagonisti del Partito socialista autonomo da lei citati?

 

Posso rispondere con una battuta: oggi, nel momento dell’estremo bisogno, non ci sono più. Tuttavia andando oltre la superficialità della battuta e ricordando le profonde analisi, mai banali, pubblicate su Politica Nuova, non so a chi abbia giovato l’abbandono dell’alleanza di sinistra il cui protagonista principale e per anni arbitro delle decisioni di governo fu Guglielmo Canevascini. Un politico perspicace, antifascista militante, fu rottamato dai Renzi di quel tempo. I socialisti contestatori d’allora erano per lo più giovani usciti dai collegi cattolici dove le élites mandavano a studiare i loro rampolli. I più passavano direttamente dalla fede religiosa cristiana, intesa come ideologia, a quella marxista senza organizzare il loro percorso intellettuale secondo un rigoroso schema storicistico. I valori dell’illuminismo non possono essere ignorati e trascurati perché si odia la borghesia. Il risultato di quelle diatribe si vede oggi con il ritorno del socialismo nazionale e del fascismo: tante energie intellettuali quelle dei giovani del PSA sprecate per nulla.

 

 

 

In diversi contributi lei, che è Ufficiale, difende a spada tratta l’esercito di milizia. Nessun patema d’animo?

 

Assolutamente nessun patema d’animo perché anche qui, come nella risposta a una domanda precedente, mi riferisco a maestri al di sopra di ogni sospetto per la sinistra. E alludo a Walther Bringolf, comunista, poi presidente del PS svizzero, obiettore di coscienza espulso dall’esercito. Nel 1940 per difendersi da un’eventuale invasione nazista andò a comprarsi un fucile e nel settembre dello stesso anno fondò, con Karl Barth e altri l’Azione della resistenza nazionale. Bringolf fu, col gigante protestante Barth, teologo ispirato da Dostoevskij e Kierkegaard, uno dei maestri che mi permisero di dare un significato profondo alla virtù della previdenza, oggi banalizzata quando si riferisce esclusivamente alla pensione pecuniaria o alla cassa che la garantisce. Bringolf e Barth, fautori della resistenza armata, dichiararono esplicitamente che la violenza del nazismo e del fascismo può essere contrastata solo con la violenza delle armi.

 

Di fronte alla rinascita del fascismo nel Ticino con la Lega dei Bignasca, dei Gobbi e di Quadri, in Italia con Salvini e in Europa coi sovranisti, presagendo le necessità future si dovrebbero prendere per tempo le misure adatte a fronteggiarle e superarle con coraggio, avvedutezza e lungimiranza. Nessun fascista tiene conto ed ha rispetto dei “civilisti” e degli obiettori di coscienza. Le situazioni politiche oggi si configurano come se fossimo ancora negli anni trenta del secolo scorso. Non dimentichiamo che si sono risolte, indipendentemente dalla volontà e dalle illusioni dei buonisti, con bagni di sangue.

 

 

 

Come concilia il suo sostegno alla rivoluzione cubana, l’essere invitato a parlare ad un simposio del partito comunista sulla crisi capitalista, e anche una sua, spesso sottointesa, difesa del marxismo con la sua fedeltà al PLRT?

 

Non si è fedeli al PLRT, e nemmeno ci si può definire profondamente legati a valori liberali, se non si considera e si difende il marxismo, figlio legittimo di una corrente illuminista e parte importante del patrimonio culturale della modernità. Il comunismo, inteso con rigore intellettuale, non ha niente in comune con lo stalinismo. La Rivoluzione cubana dimostra coi fatti e conclude la tesi espressa nella risposta alla domanda precedente. Personalmente non trovo nella storia dei popoli un mutamento sostanziale verso un maggiore benessere spirituale e materiale raggiunto senza la violenza. La rivoluzione cubana ne è un esempio evidente. Il mito di Davide, oggi assunto da giovani protagonisti palestinesi che lanciano sassi con le stesse fionde usate decine di secoli fa verso tiratori scelti che li assassinano e quello elvetico di Tell, indicano chiaramente l’inevitabilità della violenza per risolvere situazioni inaccettabili.

 

 

 

Oscar Mazzoleni viene intervistato un po’ da tutti i media ticinesi come rispettato politologo. Lei invece critica acerbamente l’analisi che lui fa sulla storia della Lega dei Ticinesi. Come mai?

 

Rileggendo l’intervista a Oscar Mazzoleni apparsa sul numero 51 del 2013 del periodico socialista “Confronti”, mi ricorda, fatte le debite proporzioni fra le due epoche e le due situazioni, il consigliere federale Pilet Golaz. Quale Presidente della Confederazione, in un’allocuzione radiofonica tenuta il 25 giugno 1940 immediatamente dopo la capitolazione della Francia, si pronunciò per una “Anpassung” (un adeguamento) alla politica del Terzo Reich. Quale risposta, nello storico Rapporto del Grütli, il generale Guisan il 25 luglio 1940 rivolgendosi ai comandanti di truppa convocati sul praticello, descrisse la difficile situazione politica e militare del Paese accerchiato dalle potenze dell’Asse, espose le ragioni del dislocamento nel Ridotto nazionale e invitò popolo ed esercito alla resistenza incondizionata. Oscar Mazzoleni anche lui giustifica la presenza e l’azione della Lega. Già se si considera il titolo dell’intervista dal quale si desume che Giuliano Bignasca fu il solo che sapeva parlare alla gente: un personaggio insomma d’intelligenza superiore che sapeva intercettare “…chi vive più direttamente il disagio sociale”. Nessun accenno nel colloquio avuto dal direttore di Confronti con Mazzoleni, al disprezzo che il defunto ebbe per lo Stato di diritto, per lo Stato stesso, per la Magistratura, non di rado da lui dileggiata e intimidita, spesso vile nei suoi confronti, così come non si trova un riferimento alle sofferenze di decine di persone da lui dileggiate, calunniate, insultate e mortificate. L’Università nella quale Mazzoleni insegna ha conferito nel 1937 un dottorato h.c. a Benito Mussolini. Nessun altro ateneo svizzero ha mai fatto simili favori a personaggi nazifascisti. Il titolo concesso al dittatore italiano, maestro di Hitler, non è mai stato revocato e Mazzoleni lo sa.

 

 

 

La quarta di copertina al suo libro è dedicata al filosofo Zizek, che, in una delle sue illuminanti provocazioni, arriva a dire che al di là dell’ovvio razzismo delle posizioni anti-immigrazione, queste dimostrano però che la lotta di classe continua, siccome il capitale usa i migranti (come i frontalieri o i lavoratori dell’est europeo) per mettere in scacco le rivendicazioni dei lavoratori. Zizek conclude dicendo che “la mera insistenza sulla tolleranza è la forma più perfida di lotta di classe antiproletaria”. Non pensa che quest’analisi renda conto, almeno in parte, delle ragioni che hanno portato alla nascita della Lega dei Ticinesi?

 

Zizek s’ inserisce nella tradizione filosofica marxista, rivisitata in termini psicanalitici tramite il pensiero di Jacques Lacan. Se da un punto di vista generale, il pensiero di Žižek è integralmente caratterizzato dall’applicazione e dalla chiarificazione dei concetti di Lacan, da un punto di vista filosofico il periodo storico cui Žižek pare quasi unicamente interessato, per sua stessa ammissione, è quello compreso tra Kant ed Hegel, in linea con gli interessi filosofici dello stesso Lacan. Non sono tuttavia necessari concetti filosofici di così alto livello per identificare e spiegare le ragioni che hanno portato alla nascita della Lega dei Ticinesi. Fra queste possiamo citare: la ripicca del Nano per non aver avuto l’appalto della costruzione del Centro di calcolo andata a Tarchini, i vecchi rancori dell’ex consigliere di stato e oggi plurimilionario Tito Tettamanti che ha sempre sostenuto il movimento della Lega col proposito di usarla ai fini di far fuori un PLRT che l’ha espulso dal governo per corruzione, l’adesione alla Lega dei fondamentalisti cattolici di Comunione e liberazione, alleati al movimento per contrastare ogni velleità laicista promossa dalla tradizione e dai valori liberali. Ma la ragione principale della nascita e del successo della Lega è la perdita dei valori fondanti dei partiti storici, in primis il PLRT che ha tradito il referente illuminista e umanista per legarsi a doppia mandata alle aristocrazie del denaro, il PPD orfano di un riferimento ai valori cristiani sentito profondamente nella coscienza e non usati strumentalmente a fini elettorali e il PS che ha abiurato al marxismo e al socialismo inteso in una prospettiva di analisi teorica e storica.

 

 

 

Chiudiamo tornando alla prefazione di Dick Marty, che si lamenta del fatto che diversi media ticinesi non pubblichino i suoi contributi per una sorta di autocensura. Ce lo conferma? Ed è la stessa ragione per cui il suo libro non è stato pubblicato in Ticino ma in Italia?

 

Il libro è stato pubblicato in Italia da MIMESIS, una prestigiosa casa editrice specializzata in filosofia alla quale sono riconoscente perché ha già accolto il mio romanzo “Gente di Brissago” uscito nel 2015. Il problema dei media ticinesi dovrebbe essere analizzato in un ambito più ampio, partendo dal Quotidiano di Toppi e chiedendosi come mai un giornale serio e autorevole non ha la possibilità di sopravvivere nel Ticino mentre che Il Mattino la cui ponderatezza è in rapporto inverso agli insulti e al dileggio verso gli avversari che il settimanale regolarmente ospita, vive e vegeta alla grande. Chi lo sostiene? Stesso discorso per il Giornale del Popolo, zittito quando un Papa sudamericano tenta flebilmente di affrontare a livello globale il problema della giustizia sociale

 

 

 

 

 

Quaderno 18 / Novembre 2018