Ricostruire l’alternativa

di Damiano Bardelli

 

A dieci anni dal devastante tracollo dei mercati finanziari, l’ordine politico occidentale costruito sulla democrazia liberale e il dominio globale del libero mercato comincia a sgretolarsi.

Le impopolari politiche neoliberali messe in atto per rispondere alla crisi economica, spesso imposte dai tecnocrati di istituzioni sovranazionali come l’Unione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, hanno alimentato l’esasperazione delle classi popolari e hanno spianato la strada ai successi elettorali della destra populista e nazionalista.

 

Per quanto quest’ultima si presenti come un’alternativa antisistema al dominio delle élite, il suo progetto politico ambisce anzitutto a rinforzare il grande capitale nazionale e non prevede alcuna messa in discussione del sistema economico.

 

Si assiste così ad una frattura interna alla classe dirigente, divisa tra i difensori del capitalismo globalizzato promosso dai vari Barack Obama, Angela Merkel e Emmanuel Macron e i promotori del capitalismo “illiberale”, nazionale e autoritario sognato da Donald Trump, Viktor Orbán e Matteo Salvini.

 

Le grandi testate internazionali, facendo prova di uno scarso spirito critico e di una superficialità analitica allarmante, mettono in scena una narrazione di questo scontro che ne amplifica le divergenze al punto da ridurre l’orizzonte delle scelte politiche a queste due sole opzioni. Dal New York Times al Guardian , dal Corriere della Sera a Repubblica , dalla NZZ a Le Temps , e così, di riflesso, dal Corriere del Ticino alla Regione, tutti presentano la congiuntura politica attuale come uno scontro strutturale tra i due poli contrapposti della sinistra liberale (o del liberal centre , il centro liberale, per riprendere la terminologia anglosassone corrente) e della destra populista, spesso qualificata impropriamente di “sovranista”. E a trarne beneficio è proprio quest’ultima, visto che in questo apparente scontro a due essa risulta essere l’ultimo bastione a difesa della sovranità popolare e l’unica alternativa allo status quo, cosa che le permette di intercettare i voti di tutti coloro che ne sono scontenti.

 

 

Analizzando la situazione più in dettaglio, però, appare evidente che questi due poli, lungi dall’essere antitetici, convergono in modo sostanziale nel loro sostegno a un capitalismo neoliberale insostenibile e distruttivo. La destra populista sogna infatti di tornare ad un capitalismo passato ed idealizzato tramite l’instaurazione dell’autarchia, la limitazione dei diritti individuali (in particolare per quel che concerne il mondo del lavoro) e l’espulsione dal territorio nazionale di ogni elemento percepito come esogeno. Il centro liberale, da parte sua, dopo aver contribuito alla deregolamentazione del mercato del lavoro e alla liberalizzazione del servizio pubblico, si batte per il mantenimento dello status quo, forte della convinzione che la democrazia liberale e il capitalismo globalizzato siano rispettivamente il sistema politico e il sistema socio-economico migliori che possano essere realizzati.

 

E poco importa se per imporre questa visione del mondo si debba ricorrere alla restrizione degli spazi democratici, riducendo votazioni ed elezioni ad un involucro vuoto e piegando la volontà popolare alle decisioni prese a Bruxelles o, ancora peggio, all’andamento dei mercati finanziari. Entrambe queste prospettive, in sintesi, sostengono gli interessi della classe dirigente a scapito del resto della popolazione e difendono un sistema economico che per sua stessa natura è costruito sullo sfruttamento della forza lavoro e sulla distruzione delle risorse naturali.

 

Il paradossale “capitalismo inclusivo” recentemente invocato da Obama come alternativa alla destra populista, insomma, resta pur sempre capitalismo. Per invertire la tendenza attuale, che vede profilarsi all’orizzonte un ordine brutale e minaccioso dominato dalle peggiori forze reazionarie, bisogna quindi rompere urgentemente con la narrativa che presenta i vari Trump e Salvini come l’unica alternativa allo status quo e come gli unici difensori della sovranità popolare.

 

Il primo passo da compiere è quello di costruire una nuova forza politica che dia voce a quella larga fetta della popolazione che non accetta le politiche neoliberali attuali e che non ne può più della malapolitica e l’inettitudine a cui ci ha abituato la nostra classe dirigente. Una forza politica che non si limiti a difendere un amaro status quo ma che rompa in modo deciso con il sistema economico attuale, irriformabile e insostenibile. Una forza politica che sia in grado di combattere simultaneamente quelli che Thomas Frank definisce i “tecnocrati illuminati” e i “miliardari arrabbiati” (“Four More Years”, Harper’s Magazine , aprile 2018), e che sia quindi equidistante da quei due poli che vengono oggi presentati come le uniche due opzioni disponibili.

 

I partiti socialdemocratici tradizionali, da tempo scivolati nel campo del centro liberale, hanno ampiamente dimostrato di non essere in grado di fornire quest’alternativa. Dopo aver rinunciato ad una lettura di classe della società ed essersi progressivamente trasformati in partiti della borghesia diplomata, hanno completamente perso la bussola. Privati della loro identità, hanno finito per accodarsi al pensiero neoliberale divenuto egemone, seguendo una traiettoria che non avrebbe minimamente sorpreso Gramsci.

 

L’unica eccezione, come è noto, è quella del Partito laburista britannico, che ha spettacolarmente cambiato rotta sotto la guida di Jeremy Corbyn. Non bisogna però illudersi di poter ripetere altrove quanto avvenuto nel Regno Unito: il sistema elettorale britannico rendeva questa via l’unica percorribile. E al contempo non si deve pensare che la rinascita della socialdemocrazia sia la via più facile. L’elezione di Corbyn ha avviato una guerra interna ai laburisti, portata avanti a suon di calunnie dall’ala liberale vicina all’ex-premier Tony Blair e che, stando a quanto emerso all’ultimo congresso del partito, potrebbe sfociare in una scissione dei centristi, i quali preferirebbero fondare una nuova formazione piuttosto che partecipare alla rinascita di una prospettiva socialista.

 

Il Partito socialista svizzero, da parte sua, continua a mandare segnali inequivocabili che non lasciano spazio a possibili illusioni. L’ultimo in ordine di tempo è quello dell’odioso accordo con i partiti borghesi che ha portato all’elaborazione del progetto nominato “Riforma fiscale e finanziamento dell’AVS” (RFFA), un vero e proprio ricatto fortemente voluto dai dirigenti del partito, tra cui in particolare il presidente Christian Levrat, il capogruppo in Consiglio nazionale Roger Nordmann e il consigliere federale Alain Berset. Per quanto il progetto abbia dato luogo ad un acceso dibattito interno al PSS, niente lascia intravedere un radicale e improvviso cambiamento nei rapporti di forza tra le diverse anime del partito. A riprova che una fetta consistente della base socialista continuerà ad essere scarsamente rappresentata dai suoi vertici e nelle istituzioni.

 

 

La via da seguire, quindi, è quella dei nuovi movimenti e delle nuove coalizioni di sinistra che in questi ultimi anni sono sorte un po’ in tutta Europa, le quali generalmente ribadiscono il valore supremo del voto popolare rispetto alle decisioni prese in istituzioni sovranazionali come l’UE. L’esempio più recente è Aufstehen (letteralmente “In piedi”), il movimento politico lanciato in Germania da Sahra Wagenknecht, ispirato principalmente alla France insoumise di Jean-Luc Mélenchon. In occasione della conferenza stampa organizzata per presentare il movimento, la Wagenknecht ha ribadito che la Germania sta vivendo una “forte crisi democratica”, come testimoniato dal fatto che “molte persone non si sentono più rappresentate nelle istituzioni e voltano così le spalle alla politica.”

 

Una situazione comune in tutto il continente e che conosciamo bene anche in Ticino. Per rendere nuovamente appetibile ed entusiasmante la politica bisogna quindi tornare a fornire un’alternativa credibile, che non si pieghi ai diktat dei tecnocrati e dei mercati finanziari e che non sia succube del dogma dell’europeismo ad ogni costo. Non per niente, come ha ricordato la Wagenknecht, “tutti i successi nel limitare e regolare il capitalismo sono stati ottenuti all’interno dei singoli stati, e gli stati hanno dei confini”. Vista l’impostazione neoliberale dell’UE, per portare avanti con successo una politica socialista bisogna prima di tutto lavorare all’interno dei singoli stati.

 

Bisogna quindi smetterla di ricorrere al termine “sovranista” in modo improprio, come principale aggettivo per definire la destra populista. Ci sono termini ben più precisi per descrivere persone come Trump o Salvini: populisti, nazionalisti, xenofobi, in parte conservatori, e poi ancora sessisti, omofobi e razzisti. Certo, costoro si presentano anche come sovranisti, ma l’espressione è del tutto inappropriata per riassumere l’insieme delle loro posizioni. Associare chi si oppone a cessioni di sovranità che svuoterebbero la democrazia di un paese a un attitudine reazionaria e beceramente nazionalista è fuorviante e controproducente.

 

Ogni popolo ha diritto di essere sovrano, come rivendicato anche dai movimenti e dalle coalizioni della nuova sinistra. Finché le istituzioni europee insisteranno ad imporre delle politiche neoliberali contro la volontà popolare, andando a rinforzare le disuguaglianze e a peggiorare le condizioni di vita delle persone comuni, i popoli dovranno avere il diritto di opporvisi e sta proprio alla sinistra di assicurare che la loro sovranità sia rispettata.

 

La grande stampa internazionale – generalmente vicina, pur con le dovute sfumature, alle posizioni del centro liberale – ne ha ovviamente approfittato per tracciare un disonesto parallelo tra la destra populista e la nuova sinistra alternativa che si leva in tutta Europa, facendo di queste due visioni diametralmente opposte due facce della stessa medaglia. Aufstehen è stato così immediatamente bollato come “sinistra antimigranti” – un termine a suo tempo appioppato anche alla France insoumise – e accusato di “imitare la retorica dell’estrema destra”, sebbene il testo fondatore del movimento non contenga alcuna dichiarazione ostile ai migranti e anzi inviti a “garantire il diritto d’asilo per i rifugiati”.

 

Insomma, la sinistra deve avere il coraggio di ribadire forte e chiaro che la sovranità popolare è un pilastro della democrazia e che nel contesto attuale le politiche socialiste possono essere attuate solo su scala nazionale, spesso in aperto contrasto con istituzioni come l’UE. Ma soprattutto la sinistra deve smetterla di farsi imporre i termini del dibattito politico da una stampa liberaldemocratica che cerca di salvare un insostenibile e agonizzante status quo.

 

Il lavoro per costruire un’alternativa alla destra populista e al centro liberale è certo immenso, ma fortunatamente altri ci hanno preceduti in questo cammino. Non ci resta che seguire la via tracciata da Jeremy Corbyn, Jean-Luc Mélenchon e Sahra Wagenknecht, tutti uniti e con entusiasmo.

 

 

 

 

 

 

Quaderno 18 / Novembre 2018