Dare un senso a ciò che facciamo

di Graziano Pestoni

 

Una volta si lavorava troppo. Anche 11 o 12 ore al giorno. Sei giorni su sette. Anche i bambini dovevano lavorare. Poi, progressivamente, il tempo di lavoro si è ridotto, anche se resta spesso molto elevato.

 

Nella ricca Svizzera, per esempio, l’orario settimanale legale è di 45 ore nell’industria, nella vendita, nel commercio e negli uffici. Per gli altri settori è di 50 ore. L’orario effettivo, previsto da contratti collettivi di lavoro negoziati tra sindacati e padronato, è in media di 42 ore, ma riguarda solo la metà dei salariati.

 

Malgrado un impegno rilevante, o forse anche per questo, ognuno, indipendentemente dalla sua professione, un tempo svolgeva con serietà la propria attività. Qualsiasi lavoro doveva essere fatto bene. Era diffusa una forte etica. In Svizzera, ma non solo e soprattutto dagli anni Settanta, questo sentimento era fortemente presente anche nella funzione pubblica. Il funzionario, l’infermiere, l’operatore sociale, l’insegnante, il poliziotto si sentiva al servizio della cittadinanza. Con la complicità del sindacato non era raro assistere a un miglioramento della qualità della prestazione, piuttosto che a quella delle condizioni di lavoro, se le stesse ovviamente erano ritenute ragionevoli. I funzionari di polizia nel Cantone Ticino, negli anni Ottanta s’impegnarono, ad esempio, con successo in una lunga battaglia per smilitarizzare il corpo di polizia, ossia per democratizzare la polizia stessa, anche se ciò comportava maggiori responsabilità per gli agenti. Lo stesso avvenne in atri paesi, come in Italia.

 

Il lavoro, allora, aveva un senso. O, almeno, sembrava averne uno.

 

Poi le politiche neoliberali presero il sopravvento. Al padronato, la qualità del lavoro non sembrava interessare più. Gli uffici del personale diventarono uffici delle risorse umane. Uomini e donne, d’un tratto, divennero solo un fattore di costo, come i mattoni, il cemento, il computer, una siringa, una qualsiasi macchina: i costi andavano minimizzati. L’obiettivo, ovunque, sembrava convergere verso la ricerca del massimo profitto. Rapidamente il mondo del lavoro divenne un luogo in cui i diritti potevano anche non esserci. Precarizzato, uberizzato, con bassi salari non più sufficienti per vivere. La mondializzazione ha cominciato a esportare povertà e tristezza. Il tempo dedicato al lavoro è complessivamente aumentato, l’età alla quale un individuo ha diritto alla pensione anche.

 

La digitalizzazione, un’opportunità fantastica se fosse utilizzata per migliorare le condizioni di lavoro e di vita, sta lentamente sopprimendo milioni di posti di lavoro. Non solo. Nella Posta svizzera, che non è più un servizio pubblico anche se appartiene ancora alla Confederazione, il progetto Prospektinbelliclean vuole, ad esempio, sopprimere tutti i “tempi morti”, standardizzare ogni operazione e, come se ciò non bastasse, sorvegliare i dipendenti. La profezia di George Orwell nel suo famosissimo romanzo 1984 sembrerebbe realizzarsi. Dal progetto risulta che la quantità del lavoro da svolgere può variare, anche se di poco, durante una giornata: la soluzione prospettata è quella di sostituire il personale fisso con personale a chiamata. Naturalmente ciò permetterebbe di misurare con estrema precisione le performance individuali e quindi di procedere alle sostituzioni atte a massimizzare la resa.

 

Il futuro potrebbe dunque riservarci una divisione tra chi deve lavorare troppo e chi non può lavorare affatto. Anche il telelavoro, sicuramente interessante in taluni casi, impedirà i legami tra il personale. Il gruppo organizzato, la condivisione, la solidarietà, in questo nuovo mondo frammentato avranno grandi difficoltà a sopravvivere. Negli ospedali, accanto al personale infermieristico, presto avremo dei robot. Molti giovani scelgono lavori precari, nella speranza di sfuggire all’alienazione. Spesso incappano, però, nel lavoro gratuito.

 

Se questo è il quadro nel quale ci muoveremo, sarà sempre più difficile essere soddisfatti della propria attività professionale, ottenere rispetto, riconoscimento. In altre parole, dare un senso al lavoro.

 

In questi giorni ci arrivano segnali che sembrerebbero muoversi in senso contrario, di contestazione. Ne sono un esempio, in Francia, i gilets jaunes. Non si sa come andrà a finire. È certo, tuttavia, che nulla in futuro sarà come prima. È già successo altre volte nella storia. In Svizzera dopo lo sciopero generale di esattamente cent’anni fa, in Francia dopo il Sessantotto. La storia è spesso storia di movimenti che prendono vita da temi strettamente legati al lavoro.

 

Tuttavia, nonostante il mutare delle forme che va, via via, assumendo, il lavoro resta l’attività che caratterizza la specie umana, non potrà mai esistere un lavoro che prescinda da qualsiasi intervento da parte dell’uomo.. E , per l’importanza che ha nella vita di ogni persona, questo deve avere un senso. Almeno fintanto che la maggioranza della popolazione dovrà lavorare per vivere.

 

 

 

 

 

Tratto da EXagere - Rivista mensile

Periodico di contributi e riflessioni di sociologia, psicologia, pedagogia, filosofia