Martin Luther King non era un profeta dell’unità. Era un radicale

di Bhaskar Sunkara

 

L’immagine di Martin Luther King Jr viene sfruttata ormai da tutti. Per il presidente Donald Trump, celebrare King è l’occasione per ricordare a tutti che condivide “il suo sogno di uguaglianza, libertà, giustizia e pace”.

Per il produttore di pick-up Ram Trucks è un occasione per… beh, vendere pick-up [come fatto nella loro pubblicità per il Super Bowl, ndt].

 

Le cose non sono sempre state così. Nel 1983, quindici anni dopo la morte di Martin Luther King, 22 senatori avevano votato contro l’introduzione di una festa ufficiale per onorarlo il terzo lunedì di gennaio. Il senatore della Carolina del Nord Jesse Helms fece ostruzionismo in parlamento [il cosiddetto filibuster, ndt] per ben sedici giorni, affermando che il “Marxismo pratico” di King “non era compatibile con lo spirito della nazione”. Nella sua opposizione all’introduzione di questa ricorrenza era sostenuto, tra gli altri, dai senatori John McCain, Orrin Hatch e Chuck Grassley.

 

Reagan firmò la nuova legge con riluttanza, mugugnando a denti stretti che avrebbe preferito “una ricorrenza simile al compleanno di Lincoln, che non è tecnicamente una festa nazionale”.

 

E indovinate un po’? Aveva le sue buone ragioni per essere esitante. Il vero Martin Luther King Jr aveva sostenuto una visione radicale dell’uguaglianza, la giustizia e l’anti-militarismo che era in completa opposizione con l’agenda politica di Reagan. Oggi più che mai, abbiamo bisogno di riscoprire questo campione delle lavoratrici e dei lavoratori.

 

 

La versione Disney di Martin Luther King che ci viene venduta oggi comincia e finisce con il suo ruolo di leader del movimento per i diritti civili che invocava insegnamenti cristiani e tattiche ispirate a Gandhi, e che ci ha raccontato il suo sogno secondo il quale “un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.”

 

Ma in quello stesso discorso del 1963, citato all’infinito con quel suo celebre “I Have a Dream”, King celebrava “questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità nera” e parlava dell’“urgenza appassionata dell’adesso”. Per la sua attività militante, King era braccato dall’FBI, denunciato in quanto comunista e bombardato di minacce di morte. Solo il 22% degli Americani approvava le Freedom Rides che combattevano la segregazione sui trasporti pubblici. Verso la metà degli anni ’60, il 63% degli Americani aveva un’opinione negativa di King, stando ai sondaggi dell’epoca.

 

Martin Luther King Jr era parte di un movimento molto più ampio, e stava al fianco di socialisti come Ella Baker, Bayard Rustin e A. Philip Randolph nella loro volontà di non solo smantellare le leggi Jim Crow [che assicuravano la segregazione razziale negli USA, ndt], ma di rimpiazzarle con una democrazia socialista e ugualitaria.

 

Malgrado l’introduzione, sotto il presidente Lyndon Johnson, del Civil Rights Act del 1964 e del Voting Rights Act del 1965, che mettevano fine all’apartheid legale negli Stati Uniti, King divenne ancora più radicale con il passare degli anni. Come affermò nel 1967, “Non ci accontentiamo più di lottare per poterci sedere al bancone. Ora lottiamo per avere i soldi per poterci mangiare un hamburger o una bistecca una volta seduti al bancone.”

 

King non era disposto a rinunciare ai suoi impegni internazionalisti per arrivare a questo cambiamento. Era stato a lungo un sostenitore delle lotte anti-colonialiste nei paesi in via di sviluppo e in una predica dell’aprile 1967 alla Riverside Church di Harlem, si alienò i suoi alleati della sinistra liberale rimettendo in questione il massacro del Vietnam e il sistema imperialista che portava i poveri, sia neri che bianchi, a “uccidere e morire insieme per una nazione che non è stata capace di farli sedere insieme nelle stesse scuole”. Malgrado la copertura negativa di oltre 160 editoriali apparsi sui giornali il giorno seguente e la rottura dei suoi alleati della sinistra liberale nel Partito democratico, King continuò a difendere il suo ideale.

 

A quel punto si professava un socialista democratico, e con la sua Poor People’s Campaign [una serie di manifestazioni a favore di una maggiore giustizia sociale negli Stati Uniti, ndt] King stava mettendo in piedi un movimento che poteva lottare non solo per la libertà politica, ma anche per quella economica, per tutti. Non era solo un attivista per i diritti civili, era anche un tribuno che difendeva una classe lavoratrice multirazziale – gente che doveva affrontare quotidianamente povertà, razzismo e disoccupazione, ma che quando si organizzava per lavorare insieme aveva un enorme potere.

 

King viaggiò a Memphis nell’aprile 1968, dove venne assassinato dal suprematista bianco James Earl Ray, per sostenere lo sciopero dei dipendenti della nettezza urbana. I suoi consiglieri gli sconsigliarono di fare quel viaggio. C’erano le minacce di morte, e c’erano altre campagne e altri impegni da onorare. Ma King sapeva che doveva esserci ad ogni costo. Sapeva da che parte stava.

 

Martin Luther King Jr non era un profeta dell’unità. Era un campione dei poveri e degli oppressi. E se vogliamo onorare veramente la sua eredità, allora dovremo lottare per finire il lavoro che aveva cominciato.

 

 

 

 

 

Bhaskar Sunkara

è fondatore e direttore della rivista socialista americana Jacobin.

Fonte: The Guardian, 21 gennaio 2019