Cimici, ovvero della necessità della speranza

di Paolo Buletti

 

Sicuramente si fa bene a raccontare come noi non offriamo strutture abitative degne della speranza ai migranti che sono qui da noi in attesa di una risposta. Non sto parlando solo delle cimici o dei cessi in cattivo stato, non insisto neanche sulla permanenza di mesi e anni in un...

... bunker sotterraneo: tutte condizioni che non alimentano il benessere e la percezione di potersi sentire in qualche modo a casa dopo un lungo viaggio denso di pericoli.

 

Sto pensando ai nomi, al sentirsi parte, al poter intraprendere il viaggio che sta dietro la possibilità di tessere relazioni con chi qui sta, in una condizione di pari dignità.

 

Se sono al chiuso sottoterra (il peggio) o anche in un centro come quello di Cadro, accerchiato unicamente da capannoni industriali e poco distante dal carcere della Stampa, che, se non infili subito la stradina con il simbolo della Croce Rossa, inciampi proprio nelle cancellate della prigione.

 

Se sto qui senza poter avere uno straccio di lavoro che mi fa sentire dentro la comunità con un mio ruolo, una parola da dire, un’esperienza da portare.

 

Se abito il più lontano possibile da un nucleo dove potrei rischiare di trovare dei coetanei, degli anziani, degli abitanti cui posso dire il mio nome, cui posso chiedere il loro.

 

Se non ho un nome da pronunciare oppure mi confronto con la pigrizia di chi non vuole neanche pronunciarlo dicendo che è troppo difficile, troppo lontano dalle sonorità cui loro sono abituati.

 

Se mi sento dire che alla fine della scuola dell’obbligo non ho più diritto alla formazione, se ho la sensazione che dentro la scuola dell’obbligo sovente il mio modo di raccontare il mondo è considerato un ostacolo alla velocità piuttosto che un’opportunità per poter riflettere sulla lingua e sulle lingue.

 

Se ........

 

Allora si impone una parola che sia spunto per cercare di capovolgere o almeno di incrinare le nostre rappresentazioni sull’accoglienza. Sono convinto che la parola SPERANZE sia uno spunto fertile per uscire dalla contrapposizione tra chiuso e aperto. Parto dall’anagramma SPERANZE PRESENZA.

 

Mi piace pensare alla PRESENZA come antidoto all’indifferenza e come sinonimo di curiosità e cura verso le biografie delle persone. La presenza che “redime gli angoli dimenticati” porta in superficie, da spessore e consistenza all’invisibilità prescritta dalle istituzioni, rompe in modo deciso lo stereotipo che si fonda sulla non conoscenza della PERSONA che ci sta di fronte.

 

Le persone che si incuriosiscono alle vite degli altri, ai loro nomi, ai loro viaggi sono gli enzimi di una società dove le speranze hanno ancora diritto di cittadinanza. Considero dunque il chiedere il nome, il chiamare per nome, il salutarsi gesti di resistenza oltre che di gentilezza, una mossa per il riconoscimento dell’altro e di me stesso.

 

Non si tratta di lasciar vivere ma di far vivere l’altro qui da noi, il noi, il me che si incontra con l’altro. A partire da qui e per continuare credo sia legittimo e doveroso interpellare le autorità e tutte le figure istituzionali sul tema delle speranze. Lo facciamo anche per noi, perchè ci interessa poter vivere in un contesto dove l’indice di speranza sia più alto.

 

Far vivere l’altro significa far vivere anche noi perché la società pacifica, ci insegna Peter Bicvahsel, è una società narrante dove ognuno senta di poter avere uno spazio e un luogo dove raccontare la sua storia.

 

Se proponiamo condizioni abitative ed esistenziali in cui l’ingrediente della speranza sia diluito fino al punto da non poterlo scorgere, allora stiamo preparandoci anche noi a metterci nella condizione di tacere, di non poter assaporare il gusto buono del pane delle storie che ci aiutano a stare al mondo.

 

 

 

 

 

Quaderno 19 / Gennaio 2019