di Luca Pisapia
Con la foto che ha immortalato la stretta di mano tra il Ministro Salvini e il capo della Curva rossonera si è riaperto il dibattito sulle tifoserie in Italia. Riprendiamo l’articolo di Luca Pisapia pubblicato sulle pagine de il manifesto.
Ha fatto scalpore, il mese scorso, la fotografia di Matteo Salvini in atteggiamento amichevole e sorridente con il capo della Curva Sud alla festa per i 50 anni della Fossa dei Leoni, storico gruppo ultras rossonero.
L’indignazione è stata a senso unico: intellettuali, giornalisti e opinionisti hanno censurato che il ministro degli Interni si facesse ritrarre in posa conciliante con un tifoso, per di più pregiudicato. Nessuno ha provato a ribaltare l’immagine e a chiedersi, ma che ci fa il leader di una delle curve più importanti con chi è de facto il capo della polizia, oltre che leader del partito che più ha fatto in termini di repressione delle tifoserie?
È leggendo il negativo di quella foto che si può cominciare un’impietosa e necessaria analisi del fenomeno delle curve italiane, che ci porta direttamente a quanto accaduto pochi giorni dopo, la sera del 26 dicembre, con gli scontri tra tifosi di Inter, Nizza e Varese da una parte e Napoli dall’altra, conclusi con la morte di Daniele Belardinelli, militante neofascista e capo del gruppo Blood and Honour del Varese. Come ha dichiarato pochi giorni fa il Gip Guido Salvini, non si è trattato di un agguato nei confronti dei tifosi napoletani, ma «ci sarebbe stato un regolamento di conti concordato». Era un appuntamento tra le tifoserie, com’era chiaro fin da subito se si ascoltavano le voci delle curve. Come si è arrivati a questo? Facciamo un passo indietro.
Uscirà a breve Football hooliganism, Calcio e violenza operaia di John Clarke (a cura di Luca Benvenga, Derive e Approdi 2019), importante raccolta di saggi del sociologo britannico, animatore dei cultural studies dell’Università di Birmingham negli anni ’70. Pur risentendo in qualche analisi dell’inevitabile passare del tempo, il testo regge, aiutato dalla curatela che fa un’approfondita panoramica delle varie scuole di pensiero che per prime approcciano lo studio dell’hooliganismo, inteso come «espressione di un “movimento di resistenza” messo in atto dai tifosi tradizionali, tipicamente appartenenti alla working class, contro i mutamenti intervenuti nel mondo del calcio processi abbinati ai profondi cambiamenti che hanno interessato la condizione dei giovanili della classe operaia». Il fenomeno hooligan nulla ha a che vedere con il mondo ultras – altro modo di tifare, nato in Italia ed esportato a fine anni ’70 in diverse realtà continentali, non in Gran Bretagna.
La sua origine è però in un certo senso sovrapponibile, come movimento di «resistenza» alla perdita di presunti «valori» e anche come tentativo di reimporre questi stessi valori di comunitarismo, maschilismo, aggressività, identità e tradizione, che spesso sfociano in attitudini politiche di estrema destra. O da questa sono facilmente egemonizzate.
Nelle metropoli e nelle piccole realtà industriali italiane, molti gruppi ultras trovarono invece le proprie radici e origini nei movimenti di estrema sinistra, negli anni 70 le curve si riempiono degli stessi ragazzi che poi trovavi nelle manifestazioni o negli espropri proletari. Ma è un’origine cui deve essere al più presto tolta ogni aura mitica, se si vogliono capire a fondo le trasformazioni di questo mondo. Come la sociologia anglosassone ha il merito di affrontare per prima questi fenomeni «devianti» senza alcuna pretesa di giudicare, né tantomeno alcuna indicazione morale.
Così il più importante tra gli studiosi italiani, Valerio Marchi, si preoccupa di indagare: «una sfera comportamentale che trova in Andy Capp il proprio più straordinario interprete: aggressivo, ubriacone, maschilista, sciovinista, sfaticato, qualunquista, tendenzialmente xenofobo, cosmicamente alieno da ogni forma di acculturazione, Andy antropomorfizza lo stereotipo della “bestia sottoproletaria”, riesce a rappresentare il modello del giovane marginale: disoccupazione cronica, senso del territorio, penuria economica, aggressività fisica e sessuale». (La sindrome di Andy Capp. Cultura di strada e conflitto giovanile, Nda Press, 2004).
Se è fondamentale non colpevolizzare questi folk devils, reietti tout court di una narrativa sociale che li utilizza come cattivi senza alcuna possibilità di redenzione, proprio per sperimentare su di esse le peggiori tecniche repressive, così non ha senso glorificarne un passato che non c’è più. O forse non c’è mai stato. Anche perché, a leggere i saggi contenuti nel volume di Derive e Approdi, si nota come i primi hooligans negli anni ’70 erano giovani che si scagliavano contro «l’effetto della rottura di alcuni legami, vincoli familiari e di quartiere tipici fino a prima degli anni 50». Poi quando nei 90 appaiono le prime critiche al calcio moderno – Against Modern Football – si cominciano a rimpiangere gli anni 70, proprio quel periodo in cui si rimpiangevano i 50. E così via.
Si rischia di sprofondare nella «nostalgia istituzionalizzata» avvisa Clarke. E come in Midnight in Paris di Woody Allen, inseguendo la nostalgia si rischia di arrivare all’origine dei tempi. Ma la nostalgia dei bei tempi mai esistiti, di un paradiso perduto e privo di contraddizioni, hanno spiegato Umberto Eco e Furio Jesi, è essenzialmente fascista. Gli hooligans sono sbagliati. Sono violenti. Sono brutti, sporchi e cattivi. «Ereditano la tradizione orale dei luoghi della cultura dei loro padri, specialmente quegli aspetti che si riferiscono all’immagine che la comunità possiede di se stessa, la sua concezione della maschilità, la considerazione nei riguardi degli stranieri», (Clarke). Ma vanno difesi proprio per questo. Non per riportarli sulla retta via, nei canali dell’industria culturale capitalista.
Tragedie come quelle di Hillsborough, dove a distanza di 25 anni si è scoperto, grazie alla tenacia dei parenti delle vittime, che i colpevoli della strage che provocò 96 morti non furono i violenti tifosi del Liverpool, ma le alte sfere della polizia inglese, raccontano anche come la carneficina fu necessaria per cambiare il calcio e fare nascere la Premier League delle televisioni e dei miliardi. Ogni spettacolo patinato della modernità, come racconta James G. Ballard, trova le sue origini nel sangue e nella violenza. Ma non solo: gli hooligans sono utilizzati da Margaret Thatcher per agitare lo spauracchio del mostro che le serve per reprimere il dissenso alle sue politiche di macelleria sociale. Per utilizzare poi nelle piazze, davanti alle fabbriche e alle miniere che stanno chiudendo, lo stesso tipo di violenza che è riservata agli hooligans.
Così in Italia «il sistema securitario di sorveglianza e repressione inizia a dedicare alla coercizione dei tifosi, affinando tecniche e metodologie e intensificandone la recrudescenza di intervento mirato, riconoscendone intrinsecamente la pericolosità sociale in quanto uno dei pochi reali luoghi di conflitto insorgente rimasto attivo nel tessuto sociale nazionale», Scriveva Marchi con lungimiranza nel 1994 in Ultrà, Le sottoculture giovanili negli stadi d’Europa (ripubblicato da Red Star Press nel 2015).
Daspo, leggi speciali, misure di controllo incostituzionali, sperimentazione di nuove armi e nuove tecniche di repressione, sono infatti tutte sperimentate contro i tifosi delle curve, gli ultras, gli hooligans. Tra applausi bipartisan. I folk devils fanno schifo a tutti, o meglio, sono utili al potere di qualunque colore esso sia. Il problema è che queste stesse misure repressive sono poi estese alla strada, alle manifestazioni politiche, ai raduni. Le curve sono, per dirla sempre con Marchi, i «laboratori di repressione»; Per questo non vanno criminalizzate, non per una loro presunta alterità.
Uno dei problemi è stato proprio un’eccessiva idealizzazione dei fenomeni hooligan e ultras all’estrema sinistra: il tentativo di proiettare su questi ragazzi ciò che non volevano e chiedevano di essere, ha permesso alla destra di farsi egemonica nelle curve di tutta Europa. Questa idealizzazione è nata anche da una presunta solidarietà di classe, quando nel volume di Derive e Approdi il sociologo Ian Taylor fa risalire proprio agli anni 60 il processo di «borghesificazione» della società e, contestualmente, delle infiltrazioni borghesi nella violenza legata al pallone.
Pensiamo solo ai più rilevanti fatti di cronaca nera calcistica del nostro paese, dove la questione di classe è completamente assente. Fino ad arrivare allo spartiacque del gennaio 1995 quando il tifoso genoano Vincenzo Spagnolo è ucciso da una coltellata di un milanista che fa parte del «Gruppo Barbour», dal nome della giacca che identificava i sanbabilini che stavano egemonizzando già allora la curva rossonera. Sono i tempi in cui la gestione dei biglietti, delle trasferte e del merchandising, in accordo tra le tifoserie e i club, portano a una simbiosi e a una comunione di intenti tra ultras e società. Ogni antagonismo è scomparso. Ma va ancora tutto bene, perché in epoca di riflusso da sinistra si continua a idealizzare il fenomeno come presunta resistenza alle dinamiche del tardo capitalismo, quando invece ne sono gli alfieri.
E così ci ritroviamo negli anni Dieci ad avere la maggior parte delle curve «depoliticizzate», ovvero né di destra né di sinistra, ovvero in mano ai gruppi dell’estrema destra. Al di là delle infiltrazioni mafiose, che fanno tanto titolo scandalistico ma si fermano alla superficie del fenomeno, il problema delle curve è che da almeno un quarto di secolo chi le vive non fa più alcuna resistenza alle dinamiche sociali ed economiche imperanti, anzi, cerca di utilizzarle a proprio vantaggio.
Per questo non stupisce che il capo della curva milanista sia oggi in tali buoni rapporti con il ministro dell’Interno da non vergognarsi di farsi fotografare con lui: il nemico non è più la polizia, né tantomeno la società. La teppa si è addomesticata, non è più antagonista. E se rimpiangere il passato non serve, idealizzarlo è pericoloso.
La sera del 26 dicembre, con il rendez vous tra tifosi interisti e napoletani, si è assistito a una delle dinamiche più in voga negli scontri tra le tifoserie oggi, darsi appuntamento lontano dallo stadio: nelle strade, nelle stazioni, nei boschi o nei parcheggi dei centri commerciali. E organizzare qui delle risse che sono solo delle grottesche repliche patinate di qualcos’altro. Simulacri di un’idea di violenza che – per quanto maschilista, sciovinista, qualunquista, tendenzialmente xenofoba – aveva forse una sua ragione di essere. E che oggi, quando hooligans e ultras sono consapevolmente funzionali al discorso dominante, non ha.
Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su il manifesto