Il miracolo poggia sul dumping

di Francesco Bonsaver

 

Dalla “prodigiosa” creazione d’impieghi in Ticino la popolazione residente è rimasta esclusa per colpa dei bassi stipendi imposti dal padronato. Il “miracolo” economico ticinese poggia su bassi salari, precariato e sostituzione della manodopera residente.

La cruda realtà statistica dietro l’enfasi nella giornata sul mercato del lavoro promossa dal Dfe.

 

Rinomati centri studi del paese tendono recentemente a glorificare l’evoluzione delle condizioni economiche dell’ultimo decennio in Ticino. «La crescita economica in Ticino è notevole, in particolare secondo la prospettiva internazionale: dal 2005, il Canton Ticino ha avuto una crescita marcatamente più rapida rispetto agli Usa e alla media dell’Europa occidentale» scriveva il Bak, l’istituto di ricerca economica svizzera di Basilea lo scorso anno. Il centro di ricerche congiunturali del Politecnico di Zurigo (Kof) si è spinto a definire “Jobwunder”, cioè miracoloso il numero di posti di lavoro creati in Ticino negli ultimi 10 anni.

 

Chissà perché i ticinesi non hanno la stessa percezione miracolosa degli esperti d’Oltralpe?

 

«Dei 30mila nuovi occupati che ha registrato il mercato del lavoro ticinese negli ultimi 8 anni, quasi la totalità è manodopera frontaliera o dimorante (permesso B)» ha spiegato Fabio Losa, ricercatore di lunga esperienza alla Supsi di Manno, alla conferenza sul mercato del lavoro promossa dal Dipartimento delle finanze e dell’economia di venerdì scorso. «Di quei 30mila nuovi occupati, quasi i tre quarti lavorano a tempo parziale. Va inoltre precisato che negli ultimi anni, in Ticino, sono ampiamente cresciuti i lavori interinali e in una certa misura le persone con contratti a tempo determinato» ha precisato ancora il ricercatore.

 

Il miracolo ticinese si fonda dunque sulla creazione d’impieghi precari, andati a frontalieri e permessi B, e generalmente con salari ribassati offerti dai datori di lavoro ticinesi. Di miracoloso vi è che la disoccupazione non si sia modificata in questo periodo. «Il numero dei disoccupati (stimati secondo gli standard internazionali) è rimasto stabile tra le 10 e le 12mila unità negli ultimi sette anni. Ciò significa che i disoccupati locali non sono stati assorbiti dalla crescita economica cantonale e dalla creazione d’impieghi a cui si è assistito» annota Losa, specificando che nemmeno l’assistenza pubblica ha conosciuto grandi impennate, essendo rimasta più o meno stabile sulle 8mila unità. «È il prezzo da pagare per la libera circolazione delle persone», ha spiegato il docente della Supsi.

 

Il vero interrogativo è dove siano finiti i residenti espulsi (o non assorbiti) dal mercato del lavoro. I numeri sono impietosi. Solo più 7mila svizzeri con lavoro nell’arco di 15 anni, addirittura calano i permessi C occupati (-4mila), mentre esplodono i permessi B (+14mila) e i frontalieri (+33mila). La statistica non è in grado di dare delle risposte certe, tante possono essere le ipotesi.

 

Nella galassia inesplorata, si va dagli studenti che non rientrano più dal resto del paese perché le condizioni di lavoro e le paghe al Sud sono pessime, alle persone licenziate che preferiscono non iscriversi nella vessatoria disoccupazione arrangiandosi con qualche lavoretto non dichiarato, ai molti over 55enni costretti al prepensionamento anticipato, al tempo parziale imposto, e così via.

 

A invitare alla prudenza nel glorificare il “miracoloso” Ticino ci ha persino pensato Stefano Modenini, direttore dell’associazione delle industrie ticinesi, nel suo intervento alla giornata del Dfe. L’uomo con un passato all’organo Plr “Opinione liberale” e rappresentante dell’industria farmaceutica ticinese, poi di Economiesuisse e oggi Aiti, nel suo intervento alla giornata del Dfe ha citato il Fondo monetario internazionale (Fmi). Definito da Modenini “uno dei pilastri dell’ortodossia capitalista”, l’Fmi scrive della necessità di elaborare un nuovo contratto sociale finalizzato a diminuire le diseguaglianze, notevolmente amplificatesi negli ultimi 30 anni di neoliberismo. Se non si correggerà il tiro, dice l’Fmi, si rischia una rivolta sociale dalle conseguenze difficilmente immaginabili e ancor meno gestibili.

 

Una rivolta contro l’élite politica, che andrebbe ad alimentare l’affermarsi di movimenti cosiddetti nazionalisti e populisti. L’Fmi propone dunque una lettura della società odierna dal punto di vista dell’attuale classe dominante, preoccupata per la sua stessa sopravvivenza nel caso di rivolte guidate da partiti di estrema destra.

 

Con una lettura opposta, ma convergente nell’evidenziare i pericoli, ne ha parlato anche il segretario di Unia Ticino, Enrico Borelli, nella successiva tavola rotonda moderata dal giornalista Alfonso Tuor. «Con l’acuirsi del divario tra ricchi e poveri, coi drammi sociali vissuti dalle persone che non sono presenti in questa sala, vi è il rischio concreto che il banco salti. Il mondo economico e i partiti politici che lo sostengono devono fare tutti gli sforzi possibili per ricostruire la coesione sociale, adottando delle misure concrete a favore dei lavoratori e di chi è stato espulso dal circuito».

 

E poiché Tuor ha evidenziato i segnali dell’imminente arrivo di una nuova crisi economica in Europa, lo scenario futuro non si fa per nulla incoraggiante.

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