Tutto il potere al popolo

di Collettivo Scintilla

 

Mumia Abu Jamal, che probabilmente non necessiterebbe nemmeno di presentazioni, ci funge da spunto per proporre una panoramica di ciò che si sta muovendo attualmente tra le classi lavoratrici degli Stati Uniti, senza tralasciare il legame con il passato e soprattutto la storia del Black Panther Party.

 

Mumia Abu Jamal, un attivista e giornalista afroamericano, militante nel Black Panther Party di Filadelfia, soprannominato “la voce dei senza-voce”, dall’inizio degli anni’80 è in carcere a seguito di un processo definito da più parti come iniquo. Nel 1982 fu infatti condannato alla pena capitale e contro questa sentenza è nata una forte mobilitazione internazionale, che ha fatto di lui il simbolo della lotta contro la pena di morte. Quasi trent’anni più tardi la pena è stata commutata in ergastolo e, malgrado una vita passata tra le mura di un carcere, Mumia Abu Jamal continua a essere la “voce dei senza-voce”.

 

Abbiamo colto l’occasione della pubblicazione di “Vogliamo la libertà. Una vita nel partito delle Pantere Nere” (edito da Mimesis Edizioni ), autobiografia di Mumia Abu Jamal, per intervistare Giacomo Marchetti, che ne è co-traduttore e co-curatore assieme a Marco Pellegrini. Marchetti collabora come giornalista free-lance con alcune testate online come Contropiano, L’Antidiplomatico e Carmila, ed è inoltre un ricercatore indipendente in scienze politiche.

 

 

 

Come mai in questo momento, secondo la tua opinione, è importante uscire con una pubblicazione su Mumia Abu Jamal?

 

È un’idea che mi è venuta nel momento stesso in cui ho finito di leggere la sua autobiografia un po’ di anni fa. Principalmente lo scopo è quello di testimonianza, cioè dare voce a un compagno che è ritenuto la “voce dei senza-voce”: un uomo che, rinchiuso in un carcere da più di trent’anni, è stato in grado di descrivere il cambiamento della condizione dei proletari afroamericani. Poi c’è uno scopo anche politico, perché da quando negli Stati Uniti si è riaffacciato un movimento di opposizione politico-sociale e il “riot” come forma di espressione delle classi subalterne soprattutto afroamericane, deponendo le narrazioni obamiane di una società post-razziale, era doveroso andare a interrogare il passato con gli occhi del presente.

 

Ed è per questo che Mumia Abu Jamal, che non solo è parte della storia del Black Panther Party, ma anche di quella del movimento di liberazione afroamericano, è uno strumento indispensabile per chi vuole capire il presente andando a interrogare la storia. Rispetto il periodo in cui Mumia scrisse la sua autobiografia, ho aggiornato il libro al presente, mostrando come anche in Europa sussistano delle condizione simili a quelle vissute dagli afroamericani negli USA.

 

È chiaro che dal momento in cui da un lato nella nostra società, sempre più somigliante a quella nordamericana, il razzismo prende forma prevalentemente basandosi sul suprematismo bianco, mentre dall’altro torna a riaffacciarsi un’organizzazione di subalterni, anche la provenienza in questo caso non sono le colonie interne, bensì quelle esterne (tendenzialmente dall’Africa, ma non solo) è sembrato giusto far riferimento a un’idea forte di come si possa combattere il razzismo da un punto di vista di classe .

 

 

 

Quali sono le condizioni di salute attuali di Mumia Abu Jamal e come si sta sviluppando la sua storia detentiva?

 

La condizione detentiva di Mumia è cambiata da quando è stato spostato, da quella che poteva essere l’anticamera della pena capitale, alla situazione attuale in cui l’esecuzione stessa non ci sarà; si tratta comunque di una morte un po’ più lenta e non meno tragica. All’interno del carcere le condizioni di Mumia si sono aggravate negli anni a causa della malattia che ha contratto già poco dopo il suo arresto. La sua vicenda giudiziaria è molto complessa, ma recentemente, anche se difficile da dire, una serie di mosse potrebbero anche portare alla sua liberazione.

 

Questo perché è stato rimesso in discussione il processo che ha subito, fatto da una giuria prevalentemente bianca, che anche organizzazioni internazionali come Amnesty hanno definito fuori dai parametri di un equo processo. Penso che ogni singola parola pronunciata da Mumia che si riesca a portare fuori dal carcere sia molto importante. L’ultima battaglia, per lui e per una serie di prigionieri, è stata quella di poter accedere a una serie di farmaci che venivano sistematicamente negati dall’amministrazione penitenziaria; il suo caso individuale è anche quello collettivo di una bella fetta di proletari che si trovano in carcere.

 

 

 

Quali sono le prospettive attuali per i prigionieri politici negli Stati Uniti?

 

Per come è strutturato il sistema penale statunitense, gran parte dei prigionieri di lunga data non potranno uscire mai, a meno che non vengano amnistiati dal presidente, cosa che non era possibile con Obama. I casi più eclatanti che provengono da quella guerra, portata avanti dal governo degli Stati Uniti contro diverse espressioni dei subalterni, sono ancora in carcere: penso a Mumia Abu Jamal, Leonard Peltier dell’American Indian Mouvement oppure David Gilbert, che ha continuato dopo lo scioglimento dei Weatherman Underground la sua attività militante clandestina.

 

Un discorso più ampio andrebbe fatto però anche sulle condizioni di vita dei prigionieri negli Stati Uniti: ultimamente è stato anche organizzato uno sciopero per denunciarne tali condizioni, che sono abbastanza inimmaginabili alle nostre latitudini, come ad esempio la reintroduzione del lavoro “da schiavo”. Durante gli incendi che hanno colpito la California quest’anno, ad esempio sono stati impiegati due o tre migliaia di carcerati come pompieri ausiliari, nell’ambito della pratica di utilizzo della popolazione carceraria come manodopera sostanzialmente gratuita. Oppure è prassi impiegarli pagandoli un dollaro al giorno per svolgere un lavoro da callcenter, cucire i vestiti di una grossa marca d’abbigliamento e così via.

 

Questo per dire che dividerei le due cose. Esiste un grosso lavoro sui prigionieri, anche ben fatto, con una produzione di documentari che hanno avuto un’eco mainstream. Poi, invece, c’è quello che sono le condizioni dei prigionieri politici del passato. È chiaro che Mumia Abu Jamal è una figura universalmente conosciuta, non solo dall’ambiente di movimento radical, ma anche dal proletariato nero.

 

 

 

Che cosa rappresenta la storia delle Black Panther negli Stati Uniti, anche alla luce della nascita del movimento Black Lives Matter? Esistono dei punti comuni?

 

Una cosa molto interessante del movimento Black Lives Matter è quella di andare a rielaborare la storia del movimento di liberazione nero e le sue correnti per renderlo adatto al contesto attuale: teorici e teoriche, piuttosto che attiviste e attiviste del movimento di liberazione, sono ripresi da questa nuova generazione di militanti afroamericani. Poi è chiaro che c’è una differenza e c’è un dibattito, nel senso che Black Lives Matter funziona anche come lobby da sinistra del Partito Democratico e sta intrecciando i suoi percorsi anche con quella corrente di sinistra che ha vinto importanti sfide elettorali all’interno delle primarie. Va detto che le due correnti sono nate in contesti diversi e non sono assimilabili.

 

Questo non vuol dire che in questo movimento ci sia un vuoto di memoria storica, anzi al contrario, perché vediamo che, anche se in forme mainstream, le Black Panthers vengono ricordate. In generale, se si osserva quella che è la produzione artistica-culturale che ha sfondato dal punto di vista di immaginario, tutto il movimento di liberazione nera, dall’abolizionismo sino ai giorni nostri, è ripreso, diffuso e discusso.

 

Il movimento Black Lives Matter non ha la forza impattante, a livello organizzativo delle Black Panthers, però almeno pone alcuni tipi di contraddizione, e questa è la cosa importante.

 

Bisogna dire che ciò accade in una società come quella statunitense, che è completamente disabituata a pensare a quella che è la sfera collettiva, uno sciopero degli insegnanti, come quello attualmente in atto in California, è un fatto fuori dal normale. Inoltre, c’è tutta la questione dell’internazionalismo, che è stato un campo che solo adesso incomincia a essere una critica all’establishment, secondo i parametri “facciamo la guerra a chiunque però non spendiamo un soldo nel nostro stato sociale” che è più o meno la retorica che si trova nei discorsi dei Socialisti Democratici d’America. Non è dunque corretto fare dei parallelismi, ma possiamo vedere una relazione.

 

Comunque il movimento di liberazione nera è nato con quello che è stato la sua massima forma di espressione, prima dell’organizzazione del Black Panther Party, cioè i “riot” scaturiti a seguito dell’omicidio impunito di un uomo o di una donna nera, e in questo senso si è ripescato il passato.

 

 

Quali aspetti del percorso politico delle Black Panthers hanno ancora ragione d’essere al momento attuale, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa?

 

Il libro è per l’appunto dedicato ad Abd Elsalam, un militante dell’Unione Sindacale di Base che è stato ucciso durante un picchetto di sciopero a Piacenza, ormai due anni fa. Lui era presente in solidarietà con altri lavoratori, in quanto la vertenza non lo riguardava direttamente. Questo lo dico perché non è solamente un omaggio a un militante morto, ma anche perché vedo in quello che sta succedendo in Italia con la lotta del bracciantato agricolo, della logistica e dei migranti molte similitudini con quella che è stata la lotta del Black Panther Party.

 

Prima di tutto perché questi lavoratori devono affrontare un razzismo virale, virulento e assassino, come ad esempio nel caso di Soumalia Sacko, che è stato ucciso quest’estate dalla lupara bianca. È un razzismo che, come dicevo prima, che si declina con i canoni del suprematismo bianco, dove a volte si esprime con atti di lavoratori autoctoni aizzati in funzione anti-sciopero contro altri lavoratori e le loro lotte.

 

Poi va preso spunto da tutta la pratica neomutualistica, come si direbbe oggi, delle Black Panther, cioè l’andare incontro ai bisogni delle persone: le colazioni gratuite per i bambini, gli ambulatori medici popolari, la necessità d’istruzione non solo politica, ma anche di alfabetizzazione, per non parlare di tutta la lotta, molto violenta, che hanno ingaggiato contro quella che veniva chiamata “guerra chimica”, cioè contro lo spaccio di droga pesante all’interno del ghetto che avrebbe portato all’annichilimento di un’intera generazione.

 

È decisamente interessante come riuscissero a coniugare insoddisfazione e veri bisogni della loro gente con un progetto politico molto più complessivo e internazionalista. Perché sul piano collettivo era, come diceva il Che, uno dei tanti Vietman da aprire e loro l’hanno aperto nel ventre della bestia. È molto importante il tentativo di unire le lotte sul fronte interno con quelle sul fronte esterno.

 

Sempre per tornare al caso italiano, è chiaro che non si può pensare di supportare le lotte che stanno conducendo le nostre sorelle e i nostri fratelli nella logistica, nel bracciantato o in quei lager travestiti che sono le strutture per i richiedenti asilo, senza capire tutto quel substrato di neocolonialismo, che conduce soprattutto l’Unione Europea, e le lotte che nei loro stessi paesi di origine stanno conducendo contro l’occupazione militare, contro le conseguenze nefaste degli equilibri economici-politici e della colonizzazione culturale.

 

 

 

Partendo dal fatto che alcune ricerche sta biliscono che attualmente è in crescita il numero di giovani statunitensi che si riconoscono nell’anticapitalismo, anche se non si definiscono concretamente né socialisti, comunisti o anarchici, parlaci della situazione attuale e di quali sono le realtà che più possono interessare?

 

Questo è il frutto di una crisi decennale che ha visto alterare le prospettive di futuro anche di giovani appartenenti a classi destinate a essere classi medie, di cui il movimento Occupy Wall Street è forse stato il primo grande sintomo, e di cui l’affezione dei millenial per Berny Sanders ne è il secondo.

 

Ora stiamo vivendo una fase ancora nuova: non è più né un movimento, né delle campagne sporadiche. Si sta infatti passando a un livello organizzativo in cui la corsa elettorale non è più l’unico obbiettivo. Stanno nascendo campagne interessanti, come quella per la sanità gratuita per tutti, per il controllo degli affitti e per il rafforzamento del sindacato, che sono anche i tre obiettivi principali che si è data la corrente rappresentata dai Socialisti Democratici d’America e che ha prodotto un impatto mediatico non indifferente, ad esempio con la vittoria di una candidata democratica portoricana, giovane lavoratrice (barista), che ha affossato il super candidato dato per vincente alle primarie nello stato di New York.

 

Un’altra campagna importante è quella contro la deportazione dei migranti irregolari negli Stati Uniti, dove vengono separate famiglie e detenuti i minori, che è una cosa piuttosto nuova nella storia del Nord America del Dopoguerra.

 

Dopo dieci anni di crisi abbiamo assistito a diversi gradi di reazione del corpo sociale americano, ora assistiamo agli albori di un tentativo di organizzazione che comincia ad avere un certo peso e non lo diciamo solo noi, ma anche i giornali della destra americana e le reti mainstream che vedono come fumo negli occhi l’affermarsi di situazioni come una ragazza portoricana, che parla della situazione del suo Stato in termini neocoloniali, una della periferia di Detroit che parla di sostegno alla Palestina oppure un’altra ragazza latina che parla di questioni come il salario minimo di 15 dollari o di cure sanitarie per tutti.

 

 

 

 

 

Concludiamo comunicando, per chi fosse interessato ad approfondire ulteriormente le tematiche raccolte dall’intervista, che a breve il Collettivo Scintilla organizzerà una presentazione dell’autobiografia di Mumia Abu Jamal tenuta da Giacomo Marchetti.

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