Sinistra, fuori o dentro questa Europa?

di Francesco Bonsaver

 

L’Unione Europea, in quanto istituzione, è riformabile oppure è da distruggere per creare qualcosa di nuovo? Sul quesito si sono confrontati l’europarlamentare Elly Schlein e il nostro Damiano Bardelli, dando vita a uno scambio che riassume le principali posizioni che attualmente dividono la sinistra su questo argomento.

Storicamente le persone a sinistra hanno sempre sostenuto il sogno di un’Europa unita, dove le barriere dei confini fossero abbattute da valori internazionalmente condivisi. La realtà però ha generato un crescente malcontento, se non aperta diffidenza, verso l’Unione Europea, considerata molto più vicina agli interessi dei banchieri e del padronato che dei lavoratori o alla tutela dell’ambiente. L’Ue va semplicemente riformata o è meglio ricominciare da capo il progetto su basi totalmente diverse?

 

 

Elly Schlein (E.S): L’Unione europea di oggi non è certo quella immaginata a Ventotene. Nella sua evoluzione storica, si è progressivamente imposta l’idea che bastasse fare il mercato e la moneta unica perché il resto dell’integrazione venisse poi da sé. Tuttavia, la bocciatura della Costituzione Europea in Francia e Olanda nel 2005, segnò l’avvio di una crisi politica e istituzionale dell’Ue. Pochi anni dopo, arrivò la crisi finanziaria del 2008. La somma delle due crisi, ha portato i governi europei a chiudersi ancor più nei propri egoismi nazionali e impedito di mettere in comune le competenze necessarie per dare risposte condivise a sfide comuni. Il dominio intergovernativo ha portato a delle scelte politiche successive alle crisi, cristallizzate in alcuni trattati come Maastricht e il Fiscal compact.

 

È importante sottolineare che queste scelte sono state prese a livello intergovernativo tenendo a margine il Parlamento rappresentativo di 500 milioni di cittadini europei. In un’Europa a trazione così intergovernativa finisce per prevalere la legge del più forte. Le politiche economiche e sociali disastrose di questi anni sono il prodotto degli equilibri di forza tra governi, in cui ha prevalso il dogma dell’austerità che ha provocato ulteriore recessione dopo la crisi. La nostra è quindi una critica profonda a questa Unione europea e alle politiche economiche e sociali di questi anni, ma anche a sinistra ci sono idee molto divergenti su come superare quest’impianto.

 

 

Damiano Bardelli (D.B): Non credo che la divergenza sia solo sul metodo, ma anche sull’analisi. Le politiche di austerità sono frutto dell’impostazione storica dell’Ue. Fin dalla sua nascita come Comunità europea del carbone e acciaio, le linee direttrici sono state quelle della supremazia del libero mercato. Inevitabilmente dunque, si è arrivati a delegare i poteri a una ristretta cerchia di persone, ritenute capaci, a cui è stata data la facoltà di dettare all’intero continente come debba essere gestita l’economia, i budget nazionali, i deficit e la politica economica nei suoi molteplici aspetti.

 

Il percorso istituzionale è stato dunque lineare in questa Europa. Lo stesso deficit di democrazia nell’Ue è stato sancito nel trattato di Lisbona, malgrado il fatto che il Parlamento europeo abbia ottenuto maggiori poteri. Cambiare l’Ue non può limitarsi a modificare la mentalità al suo interno o le scelte politiche di alcuni stati. Cambiarla significa rivedere le sue fondamenta, i suoi meccanismi, ed eventualmente fare tabula rasa degli acquis comunitari a favore della libera concorrenza a scapito dello stato sociale, del servizio pubblico e degli interessi dei cittadini.

 

 

E.S: Vedo delle differenze sostanziali su come uscire da questa situazione. Escludendo l’uscita dall’Ue e dall’euro, quali sono le proposte alternative? Alcuni a sinistra ritengono che ci sia un contrasto insanabile tra i Trattati europei e la Costituzione italiana, invece mi pare abbiano avuto lo stesso triste destino: anche nei Trattati c’è una parte sociale che però non è mai stata attuata, come accaduto alla Costituzione, se è vero che nel 2018 dodici milioni di persone, ad esempio, non sono state in grado di pagarsi le cure.

 

Ma su alcuni settori l’Unione europea ha permesso passi avanti irrinunciabili, ad esempio con alti standard ambientali e target vincolanti su riduzione delle emissioni e passaggio alle rinnovabili, su cui gli Stati non si sarebbero mai impegnati. Anche sulle competenze di politica economica della Commissione, ho una visione diversa. Nella mia esperienza tutte le scelte prese a Bruxelles, anche quelle poi vendute come “tecniche”, sono state squisitamente politiche: anche quando la Commissione europea decide di intervenire o meno sulle scelte di bilancio degli Stati membri. Facciamo un esempio. Sui budget di Spagna e Portogallo, pur essendo fuori dai parametri, non è scattata alcuna procedura d’infrazione, perché erano governi appena insediati e si è deciso di dare fiducia. Nel caso dell’Italia invece, alcuni governi come l’austriaco si sono attivati nel chiedere l’intervento della Commissione. Siamo dunque di fronte a una scelta politica, frutto di rapporti forza negli equilibri tra singoli governi, di cui la Commissione subisce le pressioni. Da qui la convinzione che equilibri politici diversi nel Consiglio, porterebbero a politiche differenti. Come ribaltare quegli equilibri e democratizzare l’impianto, è la vera domanda.

 

 

D.B: La domanda fondamentale è la questione “democrazia” nell’Ue, cioè di come far valere la sovranità popolare, la possibilità per i cittadini europei di scegliere il proprio destino. Proprio la differente attitudine verso Spagna, Portogallo e Italia è rivelatrice della gravità. È estremamente pericoloso se un organo non eletto può scegliere di punire o meno uno stato. Poco importa se sia guidato da destra o sinistra, perché rimane una decisione tecnocratica senza alcuna legittimazione democratica e popolare. Sperare nel cambiamento degli equilibri all’interno del Consiglio europeo, è pura utopia. Esso presuppone una congiunzione favorevole a livello continentale di una sinistra al governo in tutti i paesi. Un miracolo, insomma.

 

Il volontarismo purtroppo non basta, bisogna riconoscere le cause dell’attuale avanzata della destra. Cause materiali dettate dall’impoverimento delle condizioni di vita della classe media e popolare, che sono il frutto di dinamiche rafforzate dalle logiche del libero mercato alla base dell’istituzione Ue. Per fermare l’avanzata della destra e poi rafforzare l’Ue, bisogna ridare alle classi popolari e al ceto medio una soddisfacente qualità della vita e la speranza in un progetto democratico. L’unico contesto in cui oggi si può materialmente farlo, è lo Stato-nazione. Ciò non vuol dire rinunciare all’europeismo, ma ricostruirlo su fondamenta culturali e non economiche.

 

 

E.S: L’Ue si può cambiare perché è un processo in movimento, dinamico. Non solo non è utopistico cambiare gli equilibri all’interno dell’UE, ma in Parlamento lo abbiamo già fatto su questioni determinati per il benessere di tutti i cittadini, ad esempio votando a larga maggioranza per una riforma di Dublino che obbligherebbe tutti i Paesi a condividere le responsabilità sull’accoglienza, così come strumenti di trasparenza che permetterebbero di recuperare parte dei 1000 miliardi di euro persi ogni anno in evasione ed elusione fiscale delle multinazionali. In un mondo così interconnesso, le grandi sfide su cui ci giochiamo il futuro non possono più trovare risposta entro i ristretti confini nazionali: vale per quella migratoria, ambientale, sociale, e per la giustizia fiscale.

 

Non si tratta di rinunciare alla sovranità, ma riempire lo spazio europeo di democrazia, per restituire la sovranità ai cittadini al livello più adeguato per affrontare queste sfide. La Grande finanza e la criminalità organizzata si muovono già oltre i confini nazionali. Se vogliamo contrastarle, dobbiamo giocare allo stesso livello, altrimenti rimarremo sempre un passo indietro.

 

 

D.B: Continuo a non vedere come il semplice fatto di creare una forza di sinistra che abbia una visione esclusivamente continentale, non lavorando sul locale, sia sufficiente per acquisire la forza necessaria per modificare i Trattati e realizzare l’Europa dei popoli che tutti vogliamo. Non basta il volontarismo per arrivarci. Per cambiare gli equilibri, bisogna evitare che il ceto medio e le classi popolari seguano i vari Trump e Salvini. Per farlo, bisogna migliorare le loro condizioni di vita, garantendo un’equa ripartizione della ricchezza e il rispetto del diritto del lavoro in ogni Stato.

 

Perché non proporre che tutto quanto relativo alla politica economica sia di competenza degli Stati, mentre lasciare alle istituzioni europee un potere legislativo effettivo sulle questioni migratorie, ambientali e fiscali? Il punto è: la sinistra deve porsi come obiettivo l’aggregazione europea per risolvere i problemi, o darsi la priorità di risolvere i problemi sociali attualmente risolvibili solo a livello nazionale? Perché il vostro progetto ha due debolezze. Dapprima richiede molto tempo, mentre il suo fondarsi sulla speranza ideale che tutte le persone di buona volontà si riconoscano nel progetto, dimentica la dimensione materiale e la visione di classe.

 

 

E.S: Un piano non esclude l’altro. L’Internazionale dei nazionalisti avanza perché offre agli esclusi della globalizzazione un nemico facile, che siano gli immigrati o Bruxelles. Ma è illusorio pensare che per risolvere il problema basti rintanarsi nei propri confini, perché i poteri che determinano l’economia si muovono ben oltre i confini, e fuori da un forte quadro regolatorio europeo non si potrà operare la redistribuzione della ricchezza necessaria a ridurre le diseguaglianze, ad esempio contrastando il potere delle multinazionali e facendo pagare le tasse dove si fanno i profitti. Anche quando c’era la lira, e si svalutava, come se la svalutazione fosse una politica economica, i capitali poi non venivano reinvestiti in innovazione e ricerca per rendere il sistema più resiliente nell’affrontare le crisi successive. Anche il caos odierno del Regno Unito con l’uscita dall’Ue, dove peraltro non c’è mai stato l’euro, dovrebbe farci riflettere.

 

Certo che bisogna democratizzare l’impianto europeo e nel lungo termine rivedere i Trattati, ma possiamo pretendere e ottenere politiche economiche e sociali diverse già nel quadro attuale. Possiamo farlo solo con partiti più europei, corpi intermedi e sindacati più europei, piazze di mobilitazione europee che facciano insieme le stesse battaglie rafforzandosi a vicenda dal livello locale, a quello nazionale a quello europeo. Paradossalmente, il muro di Orban rafforza Salvini e Le Pen e viceversa, mentre il fatto che il governo portoghese di sinistra stia sfidando l’austerità e riducendo le diseguaglianze (e senza mettere in discussione l’appartenenza all’Unione) non rafforza il resto della sinistra europea: non possiamo lasciare l’internazionalismo ai nazionalisti.

 

 

D.B: Basterà coordinarsi tra gruppi diversi per poter incidere negli equilibri europei? Non credo che il volontarismo sia sufficiente, ma ci vogliono gli strumenti per diventare egemoni all’interno dei singoli Stati perché, come da te ricordato, in questa Europa sono i governi ad essere molto più influenti del Parlamento europeo. E in particolare il governo della Germania, che può imporre la sua visione alle altre nazioni.

 

Non basta la buona volontà per incidere realmente. Per questo, l’insistenza sull’europeismo rispetto alle sfide da risolvere su scala locale non consentirebbe di rallentare, se non fermare, la destra. Come dice il Labour Party di Corbyn, l’obiettivo non è l’Europa, ma ridistribuire la ricchezza. Se questo è fattibile con un’altra Europa, va bene. Altrimenti, noi diciamo anche no a questa Europa. L’unica visione possibile è quella di classe, costruita e consolidata nelle nazioni per poi essere estesa a livello continentale.

 

 

E.S: Per noi, non è questione di una priorità europea rispetto al livello nazionale. Secondo noi, senza uscire da questo impianto, è possibile dare delle risposte alle istanze popolari a livello locale, nazionale ed Europeo. Divergiamo sulla visione che l’euro e l’appartenenza all’Unione, siano la causa dei mali che affliggono il paese che conosco meglio, Italia. Sono criticissima sulle falle dell’Europa, ma voglio anche ricordare che le opportunità date dai fondi sociali europei per risolvere delle gravi ingiustizie locali, in Italia non sono state utilizzate dai politici locali e nazionali. Orban, per contro, le ha sfruttate ampiamente per elevare le condizioni materiali della popolazione ungherese.

 

Siamo dunque sicuri che sia tutta colpa dell’Europa brutta e cattiva o dei migranti come cause di tutti i mali, quando abbiamo una corruzione dilagante, una profonda infiltrazione delle mafie nell’economia reale e le multinazionali che possiamo sfidare solo a livello internazionale europeo e globale? Se il punto è migliorare le condizioni di vita delle persone affinché non inseguano le sirene delle risposte offerte dall’estrema destra, che risposte non sono, molte delle battaglie che abbiamo affrontato e vinto al Parlamento europeo avrebbero dato già le risposte che servono. Quali argomenti avrebbe Salvini contro l’Europa sui migranti se fosse già approvata la nostra riforma di Dublino che distribuisce equamente le responsabilità tra tutti gli Stati membri? Se siamo riusciti a farla approvare ai due terzi del Parlamento europeo è perché c’è già un’altra Europa, e se si mobiliterà insieme, a livello nazionale ed europeo, si potrà rimettere al centro il principio di solidarietà e cambiare le politiche scellerate di questi anni.

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