Non è un paese per giovani

Zeno Casella, Partito Comunista

 

“Si è rotto l’ascensore sociale”: così titolava recentemente il domenicale Il Caffè, la cui inchiesta contribuisce a sfatare il mito ancora largamente imperante della “meritocrazia” e dell’imprenditorialità personale come mezzo di promozione sociale.

La verità è che ancor oggi il destino sociale degli individui è legato a doppio filo con la propria origine di classe: quasi solo chi si trova in alto nella piramide sociale può sperare di rimanere o diventare ricco. Questa situazione tocca da vicino anche il Ticino, per il quale il Partito Comunista ha identificato due principali assi d’intervento: il lavoro e la formazione.

 

Nella citata inchiesta, l’economista Sergio Rossi segnalava come i giovani ticinesi, “se studiano fuori cantone, una volta laureati restano là anche a lavorare”. Questa “fuga di cervelli” è un fenomeno ormai appurato da anni: secondo l’ex direttore dell’USTAT Elio Venturelli, da inizio secolo circa il 7-8% della popolazione residente tra i 20 e i 39 anni avrebbe lasciato il Ticino per dirigersi Oltralpe. La ragione è molto semplice: il reddito medio dei laureati ticinesi a cinque anni dal diploma è inferiore del 37% alla media nazionale. Per questa ragione sono necessari dei decisi interventi sul mercato del lavoro: il Partito Comunista, oltre al noto salario minimo orario a 21.50 CHF (un primo passo verso dei salari davvero dignitosi), rivendica l’introduzione di più controlli e di un Tribunale del lavoro (l’iniziativa parlamentare del deputato comunista Massimiliano Ay è stata bocciata pochi giorni fa dal Gran Consiglio, e sostenuta solo da metà del gruppo parlamentare PS!), così come il divieto di attività per le agenzie interinali.

 

Noi comunisti vogliamo andare però al di là di queste misure e non abbiamo paura di usare uno slogan ancora tabù per buona parte della politica: noi vogliamo più stato e meno mercato! Proponiamo infatti una programmazione pubblica dello sviluppo economico, fondata sulla promozione statale di poli industriali dedicati a specifiche attività produttive di carattere strategico (la capitolazione sulle Officine FFS è in questo senso un grave errore), la nazionalizzazione dei servizi pubblici (ricordo la nostra iniziativa per il ripristino della regia federale della Posta) e la diversificazione dei partner commerciali (guardando ai paesi emergenti).

 

 

Occorre però agire anche sul fronte della formazione, come giustamente segnala il sociologo Sandro Cattacin, secondo cui “con un mercato del lavoro ormai internazionalizzato e concorrenziale non basta più imparare semplicemente un mestiere”. Bisogna tornare invece a investire nell’istruzione, a offrire delle maggiori opportunità di formazione che non siano strettamente funzionali alle esigenze a breve termine del padronato.

 

Va infranto il tabù dell’apprendistato come panacea di tutti i mali, per valorizzare davvero la formazione professionale: il Partito Comunista propone un minimo salariale di 1000 CHF per gli apprendisti, una migliore preparazione pedagogica dei formatori e il potenziamento della formazione culturale nelle scuole professionali. Occorre però aprire anche delle più ampie prospettive di studio a noi giovani: in questo senso, il nostro deputato è riuscito a far raddoppiare i posti disponibili nei corsi passerella e ad aprire un dibattito sull’estensione dell’obbligo scolastico. Non da ultimo, va garantito il diritto allo studio: basta tagli alle borse di studio e aumenti delle rette!

 

 

Il Ticino non è quindi un paese per giovani: noi comunisti vogliamo che torni a diventarlo! In questa legislatura ci siamo già mossi in questo senso, ma per poter continuare dobbiamo mantenere la nostra presenza in parlamento.