La prossima crisi: perché il mondo è impreparato per i rischi economici che ci aspettano

di Grace Blakeley

 

È passato ormai un decennio dall’inizio della Grande Recessione, il più colossale crollo che abbia travolto l’economia mondiale sin dagli anni 1930. Negli anni trascorsi dal 2008, il mondo ha sperimentato una lenta ma regolare ripresa.

Dei rischi economici, tuttavia, si profilano all’orizzonte, tra cui una nuova crisi globale del debito, delle guerre commerciali tra superpotenze e un rallentamento dell’economia cinese.

 

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha tagliato le sue previsioni di crescita globale per il 2019 al 3,5% (contro il 3,9% del luglio 2018), adducendo come ragione una crescita più bassa sia delle economie avanzate che di quelle emergenti e l’aumento della probabilità di uno shock economico. Alcuni analisti di mercato mettono in guardia contro una possibile recessione globale per quest’anno, cioè ben prima di quanto non avessero anticipato i più. Ma quanto siamo realmente in pericolo? E quali sarebbero le conseguenze economiche e politiche di una nuova crisi?

 

A un primo sguardo, è difficile capire le ragioni di questo pessimismo. Nel nostro mondo interconnesso, la crescita globale è intimamente legata alle fortune delle economie più grandi, la maggior parte delle quali ha beneficiato di una ripresa regolare dai tempi della crisi del 2008.

 

Dal 2012, il PIL della Cina è cresciuto ad un tasso annuale del 6-8%, più basso che nel periodo precedente alla crisi (la crescita aveva raggiunto un picco del 14% nel 2007) ma comunque abbastanza forte da supportare la crescita del ceto medio cinese e da stimolare così le economie dei suoi maggiori partner commerciali. La ripresa americana è stata particolarmente lenta rispetto a quanto avvenuto storicamente in situazioni simili, ma la crescita nel 2018 (2,9%) è stata pur sempre tenuta a galla dagli sgravi fiscali di Donald Trump, che hanno gonfiato i profitti delle grandi aziende. La crescita del Giappone è stata lenta ma stabile – il che è poco sorprendente se si tiene conto del rapido crollo della sua popolazione (che è diminuita di 449'000 unità nel 2018). Solo l’eurozona continua ad arrancare, crescendo solamente dell’1,8% nel 2018.

 

 

Ma le apparenze ingannano. La crescita americana è stata altamente instabile e distribuita in modo disuguale, ed è accompagnata da una debole politica monetaria (i tassi di interesse sono attualmente tra il 2 e il 2,25%) a cui viene richiesto di sostenere dei tassi di crescita irrilevanti che hanno variato di quasi cinque punti percentuali tra i suoi risultati migliori e quelli peggiori. Il salario reale medio americano equivaleva nel 2018 al potere d’acquisto di quarant’anni fa. Nel frattempo, il debito aziendale ha raggiunto livelli record (45% del PIL) e i mercati finanziari sembrano ancora valutati al di là del loro valore reale.

 

La crescita della Cina è stata guidata quasi interamente dalla sua manovra di stimolo del 2009 del valore di 586 miliardi di dollari (uno dei più imponenti della storia, che ha incluso investimenti pubblici nei trasporti veloci su rotaia, aeroporti e miglioramenti delle strade), la quale ha anche sostenuto la crescita di economie dipendenti dalla domanda cinese per le proprie esportazioni (come la Germania). Brasile, Russia e Sud Africa – un tempo considerate come parte delle economie emergenti dei “BRICS” – sono tutti fermi a tassi di crescita annuali dell’1,5% o anche meno, stando agli ultimi dati.

 

La Germania ha evitato la recessione di pochissimo, con un tasso di crescita pari a zero nell’ultimo quarto del 2018, mentre l’Italia è tornata ad un tasso di crescita negativo. Nel Regno Unito la crescita nell’ultimo anno è stata al suo livello più basso dal 2012, con la produttività scesa dello 0,4% lo scorso dicembre.

 

“La crescita globale era esplosiva nel 2016 e nel 2017, con oltre i tre quarti del mondo che viaggiavano al livello o al di sopra dei tassi di crescita tendenziali”, ci spiega Andy Haldane, chief economist della Bank of England. “Ma c’è stato un rallentamento considerevole nel corso del 2018. Oggi, la maggior parte del pianeta viaggia al di sotto dei tassi di crescita tendenziali. Questo rallentamento è stato simultaneo in tutti gli Stati Uniti, nell’eurozona e in Cina.”

 

Il debito privato, nel frattempo, è tornato a crescere in molti stati – in particolare in Cina, in Australia e in alcuni paesi nordici – e molti mercati emergenti sono adesso in una situazione di indebitamento preoccupante (cioè hanno avviato una procedura di default o non possono rispettare i loro debiti).

 

 

Senza una crescita ampia e sostenibile, i rischi accumulati e le incertezze aumentano. Come afferma Alfie Stirling, chief economist alla New Economics Foundation, “quasi per definizione, i crolli finanziari sono causati dall’incertezza rispetto agli eventi, piuttosto che dagli eventi stessi.” Il problema dell’economia globale non è tanto l’inevitabile piega negativa del ciclo economico, quanto piuttosto la quantità di fattori che potrebbero alterare l’attuale delicato equilibrio. Ad oggi, i principali fattori di rischio sono cinque: l’instabilità finanziaria della Cina; delle misure restrittive di politica monetaria a livello globale (aumento dei tassi di interesse e la fine del quantitative easing, QE); un’irrisolta crisi dell’eurozona; uno shock del commercio globale; e la crescita del debito privato nei paesi in via di sviluppo. […]

 

 

Se è improbabile che la maggior parte di questi fattori avvii una recessione globale nel 2019, le prospettive sul breve termine sono allarmanti. A preoccupare maggiormente è la probabilità che all’arrivo della prossima recessione – è solo una questione di tempo – saremo ancora meno preparati di quanto non lo fossimo nel 2008. La politica monetaria è già considerevolmente allentata (i tassi di interesse nel Regno Unito sono allo 0,75%, mentre prima della crisi erano al 5%) e i livelli del debito nazionale sono cresciuti considerevolmente, riducendo lo spazio di manovra per gli stimoli fiscali (spesa pubblica e sgravi fiscali). Il rischio è che quando colpiremo l’iceberg non ci saranno abbastanza scialuppe di salvataggio, per parafrasare un espressione cara agli economisti.

 

 

Tutto ciò riflette un problema più profondo. La ragione per cui i livelli del debito sono ancora così elevati e i tassi di interesse così bassi è che la ripresa dalla crisi finanziaria è stata particolarmente debole.

 

I livelli del PIL possono anche essersi ripresi, ma la crescita degli investimenti, della produttività e dei salari è stata appena accennata, in particolare negli USA e nel Regno Unito. Mai come oggi l’evoluzione della qualità di vita è stata così lontana dalla crescita dell’occupazione (attualmente ad un massimo storico nel Regno Unito). Se la ripresa è stata caratterizzata da salari e produttività stagnanti, dal crollo degli investimenti e dalla crescita della povertà, che aspetto avrà la prossima recessione?

 

 

La storia ci insegna che quando lo status quo offre solo stagnazione o declino, gli elettori optano per opzioni radicali. Fino ad ora, la delusione è stata incanalata in un crescente supporto per la destra populista, la cui retorica antisistema nasconde in realtà un profondo sostegno al capitalismo di mercato.

 

Ma adesso che la maschera scivola dal viso dei Donald Trump e [Matteo Salvini] di turno, i difensori dello status quo devono far fronte ad una prospettiva che li preoccupa ancora di più: l’elezione di una schiera di leader politici che si identificano apertamente come socialisti. La prossima recessione potrebbe non essere ampia come quella del 2008, ma potrebbe produrre una rottura ancora più grande.

 

 

 

 

Fonte : NewStatesman, 6 marzo 2019.