I curdi finiranno come i palestinesi?

di Michele Giorgio, corrispondente dal Medio Oriente

 

Il vertice di paesi arabi ed occidentali a Varsavia voluto dall’Amministrazione Trump, il summit di Sochi con Russia, Iran e Turchia e la Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera non hanno lasciato intravedere possibilità per i curdi.

L’esperimento di democrazia progressista (Confederalismo democratico) avviato nel Rojava, nel nord della Siria, non riscuote l’interesse di quella che abitualmente definiamo come la comunità internazionale.

 

 

 

Dagli amici mi guardi Dio....

 

Come i palestinesi, i curdi hanno innumerevoli avversari e non pochi falsi amici. A cominciare dagli Stati uniti che in Siria sfruttano la causa curda a loro vantaggio – come l’appoggio ad intermittenza offerto ai combattenti (non solo curdi) delle milizie Fds impegnate nella lotta all’Isis – per poi lasciare piena libertà al presidente-dittatore turco Erdogan di usare la forza contro le ambizioni curde.

 

La Turchia era e resta il nemico implacabile dei curdi. A Monaco il ministro della difesa turco, Hulusi Akar, ha detto che Ankara farà tutto ciò che è nelle sue possibilità per “garantire la sicurezza” dei confini turchi e di essere pronta a lanciare una nuova offensiva militare (dopo quella nota come “Scudo dell’Eufrate) per combattere i “terroristi”, ossia i combattenti curdi. Ovunque essi agiscano. Ha spiegato che per la Turchia non vi è alcuna differenza tra le Unità di protezione popolare (Ypg), la milizia curda in Siria, e il Partito curdo dei lavoratori (Pkk, all’interno dei confini turchi). “Non permetteremo mai l’apertura di un corridoio del terrorismo al confine sud. Le Ypg non rappresentano i curdi, ma soltanto se stesse”, ha affermato perentorio.

 

Qualche giorno prima Erdogan, ribadendo la linea del pugno di ferro, aveva addirittura messo sullo stesso piano l’Isis e le Ypg, “Gli assassini del Pyd-Ypg - ha proclamato puntando il dito contro l’aiuto militare che Washington offre ai curdi - che hanno fatto una pulizia etnica nel nord della Siria, usano missili, bombe e munizioni forniti dai nostri alleati. Noi non possiamo delegare ad altri situazioni legate alla sicurezza nazionale e ci tocca intervenire”. Erdogan dall’inizio dell’anno minaccia una seconda offensiva in territorio siriano volta a eliminare le postazioni curde dalla città di Manbij e a est del fiume Eufrate.

 

 

 

Il doppio giuoco americano

 

Di fronte a questo c’è l’ambiguità di fondo degli Stati Uniti, intenzionati ufficialmente ad uscire dalla Siria ma, che un giorno sì e uno no continuano a comunicare passi contrari a questo indirizzo. Non certo in accoglimento degli appelli dei curdi, o meglio di una parte di essi, a non lasciare la Siria. Piuttosto per rispondere alle “preoccupazioni” di Israele che vede nella presenza americana una sfida all’ambizione di Damasco di recuperare il controllo di tutto il territorio nazionale e al consolidamento della presenza iraniana in Siria (contro la quale Tel Aviv lancia frequenti attacchi aerei).

 

Secondo quanto riferito a metà febbraio dal “Wall Street Journal”, le forze armate statunitensi ritireranno tutte le truppe dalla Siria entro la fine di aprile, sebbene l’amministrazione Trump non abbia ancora messo a punto un piano di sostegno ai curdi minacciati dalla Turchia (che, è bene ricordarlo, è una stretta alleata di Washington nella Nato). Una parte significativa delle forze Usa dovrebbe partire entro la metà di marzo, il ritiro completo avverrà alla fine di aprile. Il WSJ aggiungeva che gli Usa starebbero cercando un accordo con Ankara per la Siria nordorientale.

 

Washington guarda prima di tutto alla realizzazione del suo piano: rimuovere dal potere il presidente siriano Bashar Assad e spaccare la Siria in almeno due aree di influenza. Il sud sotto l’ala di Israele e il nord di quella della Turchia. In questo disegno le aspirazioni curde diventano irrilevanti rispetto alle “garanzie” strategiche che offre Ankara. La Turchia che già ha una forte influenza, anche militare, sulla regione siriana di Idlib – controllata dal ramo siriano di al Qaeda ed ultima porzione di territorio in mano ai gruppi armati islamisti e jihadisti che combattono Damasco – ed è in grado di mantenere il controllo di tutto il nord della Siria, sottraendolo a Damasco.

 

A Washington non dispiacerebbe il raggiungimento di una “convivenza a lungo termine” tra turchi e curdi nel nord della Siria, una sorta di tregua permanente che lascerebbe più o meno immutato il quadro attuale. Ma non avverrà, vista l’intenzione di Ankara di annientare qualsiasi forma, anche la più blanda, di autonomia politica e territoriale dei curdi. E comunque gli americani devono necessariamente tenere conto del ruolo centrale della Russia in Siria.

 

 

 

Da Mosca a Varsavia, Erdogan e Netanyaou

 

Mosca sta cercando di trovare un difficile equilibrio tra i suoi interessi, quelli dei turchi, degli americani, degli israeliani e degli iraniani oltre a dover difendere l’alleato Bashar Assad. Un’impresa complessa come ha dimostrato l’ultimo summit Russia-Turchia-Iran sulla Siria che si è tenuto nella prima metà di febbraio a Sochi.

 

Un problema chiave per il Cremlino è mantenere e rispettare l’integrità della Siria che, ha ribadito il viceministro degli esteri Sergey Vershinin alla conferenza di Monaco, “deve restare sovrana e indipendente”. “Noi sosteniamo il dialogo fra Damasco e curdi – ha aggiunto – i curdi sono una parte della Siria”. Mosca sostiene la posizione di Damasco secondo cui un accordo sulle aspirazioni dei curdi siriani, o almeno di una parte di esse, venga trovato esclusivamente all’interno del dialogo che i rappresentanti politici di Ypg e Fds hanno avviato con il governo centrale. Assad, da parte sua, esorta i curdi a smettere, finalmente, di ascoltare le sirene americane.

 

Secondo alcuni osservatori, una “nuova mappa” del Medio oriente sarebbe stata delineata agli incontri avvenuti a Sochi e Varsavia, durante il colloquio tra Vladimir Putin, Erdogan e il presidente iraniano Hassan Rohani e quello che nella capitale polacca ha visto protagonisti il vice presidente Usa Mike Pence e il premier israeliano Benyamin Netanyahu. “Quando gli arabi e gli israeliani sono d’accordo con tanto vigore (sulla presunta minaccia iraniana,ndr) altri dovrebbero ascoltare”, ha detto Netanyahu convinto che la conferenza di Varsavia abbia rappresentato “una svolta storica”. A suo dire “In una stanza sola frequentata da quasi sessanta ministri che rappresentano decine di governi, un premier israeliano e ministri dei principali paesi arabi si sono messi fianco a fianco ed hanno parlato in modo particolarmente forte, chiaro e unito contro il pericolo rappresentato dal regime iraniano”. L’Iran, gli ha fatto eco Mike Pence, è “la più grande minaccia alla pace e alla sicurezza nel Medio Oriente”. Il vice di Trump ha invitato i Paesi dell’Ue ad uscire, come hanno fatto gli Usa, dall’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano firmato nel 2015.

 

Washington promuove la normalizzazione dei rapporti tra le monarchie sunnite del Golfo e lo Stato ebraico all’interno dei quali Israele dovrebbe avviare relazioni diplomatiche piene con diversi Paesi arabi senza ritirarsi dai Territori palestinesi e dalle Alture del Golan, un’area siriana strategica sotto occupazione dal 1967. Il “nuovo Medio oriente” che Pence e Netanyahu hanno in mente vede un Iran addomesticato, anche con la forza, una Siria spaccata in più aree di influenza e il controllo strategico della regione nelle mani di Arabia saudita e Israele. Un piano che, a dispetto di quanto affermano certi osservatori, Mosca non può sposare perché è palesemente volto a ridurre se non ad eliminare la sua influenza nella regione.

 

In ogni caso i curdi vengono messi a margini. Ma l’elaborazione teorica del loro futuro politico non cessa. Da dietro le sbarre Ocalan ha scritto testi che sono diventati la base del “Confederalismo Democratico” in atto nel Rojava e un possibile modello globale. Ha trasformato il Pkk in un movimento che punta all’autonomia senza Stato. Autogoverno, cooperativismo, femminismo e internazionalismo sono il pilastro del Confederalismo Democratico.

 

Erdogan lotta contro di esso attuando una dura repressione dei curdi in Turchia e con l’invasione della Siria e l’occupazione di Afrin. E minaccia un’offensiva oltre l’Eufrate. I curdi sono pronti a resistere. Il simbolo della loro lotta non è più solo Ocalan. Da oltre 100 giorni la parlamentare Leyla Guven fa lo sciopero della fame, nell’indifferenza del mondo, ma non si arrende.

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