di Silvano Toppi
C’è un male comune che corre tra i paesi cosiddetti occidentali, capitalisti, che in modi simili si manifesta come avversione nei confronti delle istituzioni (o le élites) e sta diventando sempre più ribellione generalizzata. Potremmo definirlo: ingiustizia fiscale.
Con parole più esplicite: i ricchi sono sempre più favoriti (dalla politica) e accumulano diventando sempre più ricchi, le altre classi risultano penalizzate o impoverite.
Tutto avviene contro ogni principio di equità fiscale, proclamato nelle Costituzioni come inviolabile e perno della democrazia. Principio secondo il quale ognuno contribuisce al bene comune proporzionalmente alla sua ricchezza in reddito e patrimonio.
Si dirà che non c’è niente di nuovo, il fisco è sempre stato nella storia motivo di contestazioni e ribellioni. Ci sono però due assiomi (o due dogmi) che hanno investito e irretito la politica fiscale a partire dagli anni Ottanta e che tutt’ora dominano, sono divenuti elementi di indottrinamento anche nelle nostre scuole universitarie e hanno generato e consolidato il sistema, dandogli contenuto scientifico. L’uno è stato venduto con un grafico a campana (la ormai storica curva di Laffer, dal nome dell’economista californiano che l’ha inventata), l’altro è il derivato di una credenza fattasi pittoresca espressione inglese (“trikle down effect”; tradotta:”effetto dello sgocciolamento dall’altro verso il basso”). Il primo mette in relazione la pressione fiscale con il gettito: c’è un punto (il vertice della curva) al di là del quale la pressione fiscale diventa tale che produrrà per reazione una diminuzione del gettito. Volgarizzato: troppa imposta uccide l’imposta. Il secondo vende come certezza scientifica l’idea che la ricchezza, anche se si accumla in poche mani, finisce sempre per gocciolare verso il basso, per ridistribuirsi, anche perché solo così può rialimentarsi. Politicamente applicato: il ricco è da attirare, coltivare e non spremere perché gioverà a tutti.
Tra problemi ed effetti paradossali
Due assiomi, fattisi leggi dovunque, che hanno creato tre problemi mai risolti e tre effetti inversamente proporzionali a ciò che politicamente pretendevano. I tre problemi mai risolti: come stabilire il livello di pressione (o aliquota) fiscale per non invertire la curva del gettito fiscale; come ottenere quella ridistribuzione di ricchezza (o dei redditi) che, carburante dell’economia, garantisca crescita dei consumi, investimenti, lavoro; come mantenere il fine ed anche il senso della giustizia fiscale, fondamento di eguaglianza e quindi di democrazia e coesione sociale. I tre effetti politicamente mancati sono la conseguenza dei tre problemi mai risolti o trascurati.
Si è sempre più abbassata l’asticella dell’imposizione fiscale, 6 convinti che solo così si assicurava e incrementava il gettito fiscale, anche perché era fatale che si avviasse la corsa all’asticella più bassa. Producendo però in realtà forte squilibrio tra impegni crescenti dell’ente pubblico e disponibilità finanziarie, con conseguente e sistematico indebitamento, oneri d’indebitamento, restrizione di spesa (austerità) e dunque di investimenti e consumi. Si è quindi favorita la concentrazione della ricchezza che è andata a inflazionare la finanza per accrescersi ancora, moltiplicando quella forte diseguaglianza di redditi più volte ritenuta dagli organismi internazionali (Fondo Monetario, Ocse, Banca mondiale, Banca centrale europea) la causa principale della fragilità economica persistente, della “crescita recessiva”(!), dello squilibrio tra finanza ed economia reale, causa delle frequenti successive crisi che da cicliche sono ormai diventate permanenti.
Si è in fine dovuto constatare che lo “sgocciolamento” della ricchezza dall’alto verso il basso è una panzana, mentre si è invece generalizzata la percezione o la dimostrazione vissuta di un’ingiustizia fiscale fattasi sistema tra classi politiche imbelli e interessate. Tanto che alcuni politologi, analizzando ciò che sta capitando nella società, l’hanno definita “il miglior carburante del populismo diffuso”.
I due dogmi dati per indiscutibili sono stati recepiti e applicati dalla politica fiscale federale e cantonale. Talmente innestati, ripetuti ed entrati in ogni riforma, che appare superfluo dimostrarlo o persino rilevare i problemi creatisi e gli effetti ottenuti. D’altronde il Forum l’ha già fatto con più interventi.
L’obiettivo di questo articolo è quello di alzare il naso dalla cucina domestica e osservare all’esterno alcune recenti critiche qualificate (potremmo dire universali) che demoliscono l’adozione supina di quei dogmi.
Addirittura il Fondo Monetario reclama
Il Fondo monetario, organismo internazionale tendenzialmente neoliberista, in un recente rapporto (che si può trovare sul suo sito) ritiene che la ricchezza e gli alti redditi vadano maggiormente tassati. Partendo da due constatazioni, dimostrate: da trent’anni è in atto una continua e forte diminuzione dei tassi di imposizione fiscali delle imprese nei cosiddetti paesi sviluppati (dall’85 al 2018 si sono in media dimezzati); da una trentina d’anni c’è una riduzione sostanziosa dei tassi di imposizione sulle quote superiori di reddito che hanno permesso alla classi più agiate di arricchirsi ancora maggiormente (vari esempi dimostrano come il meccanismo instaurato fa sì che dagli inizi del Duemila il 95 per cento degli aumenti di reddito, nonostante la crisi o forse proprio per quella, hanno aumentato la ricchezza dell’1 per cento delle persone più favorite).
Non è che al Fondo monetario sia sopravvenuta una resipiscenza etica o di giustizia fiscale, anche se si rileva che “la fiscalità è sempre un tema delicato” e che la ricchezza si è sempre più concentrata. Sono rilevate tre conseguenze che preoccupano e che rappresentano la negazione della pretesa bontà economica dei due principi venduti dovunque come motori del sistema: i poderosi sgravi fiscali non si sono tradotti in maggior crescita (tutt’al più in debole crescita) e non hanno quindi risolto il problema che si pretendeva risolvere, ritenuto che la continua maggior crescita è l’essenza dell’economia e della società; si sono invece tradotti in continuo oneroso indebitamento (superando paradossalmente e di gran lunga la ricchezza creata); si è indebolita se non prosciugata la riserva di manovra degli enti pubblici qualora si dovesse far fronte ad una nuova crisi (se, ad esempio, i tassi di interesse sul debito dovessero superare i livelli del 3-4 per cento, com’è logica tendenza; è significativo a questo proposito l’allarme degli scorsi giorni della Banca nazionale sull’eccessivo indebitamento ipotecario svizzero).
Risultati “deleteri” secondo economisti accademici
Tre importanti economisti, Thomas Toersloev, Ludvig Wier, Gabriel Zucman (delle universita di Copenhagen e Berkley), in una ricerca già significativa nel titolo (The Missing Profits of Nations o I profitti persi delle nazioni, NBER Paper, 2018) dimostrano, con abbondanza di analisi, tabelle e grafici, che la corsa alla riduzione delle imposte prelevate sugli utili per attirare o mantenere delle aziende sul territorio nazionale (una sorta di corsa a somma zero poiché tutti faranno la stessa cosa) è particolarmente dannosa per i modelli sociali e la crescita economica. Sia perché quegli sgravi devono essere compensati mantenendo la pressione fiscale, con gli oneri obbligatori, sulle economie domestiche (ciò che deprime il reddito disponibile, il potere d’aquisto, il consumo), sia perché è giocoforza risparmiare sulla spesa pubblica (che si traduce immancabilmente in una riduzione dei servizi pubblici, come educazione e salute, e degli interventi sociali).
A conti fatti il risultato è deleterio: si sacrifica quella che viene definita “competitività strutturale” (educazione, salute, ambiente, qualità di vita, coesione sociale, democrazia) alla competitività-prezzo (minori prelievi fiscali). Ciò che a media e lunga scadenza può essere fatale.
Anche perché è dimostrato (sugli anni che vanno dal 1985 al 2018) come l’operazione è assurda in quanto non si traduce in un aumento materiale del capitale produttivo né in un aumento reale dei salari, mentre permette ad esempio alle multinazionali di distribuire sempre più alti dividendi agli azionisti.
Tra le conclusioni tratte dalle varie analisi appare una conferma peggiorata di quanto spesso si è denunciato: la continua deformazione della ripartizione del valore aggiunto (o della ricchezza creata) a favore del capitale è “significativamente sottostimata”. Come a dire che l’ingiustizia è molto più significativa ed elevata di quel che si si avverte o si dice.
Fare come il populista Roosevelt
Dani Rodrik, economista a Harvard, è riconosciuto come il massimo ricercatore e studioso della globalizzazione su cui ha scritto parecchio. Ma anche della storia del Partito populista americano (v. Populist Party), sorto in circostanze che richiamano molto quelle attuali. Forse a Rodrik sarà arrivato alle orecchie anche dei meno attenti in economia perché i media hanno dato rilievo ad una sua singolare e provocante affermazione: “In certo qual modo, il presidente Roosevelt (n.d.r.: quello della crisi degli anni Trenta o del “New Deal”) ha risposto al populismo politico del suo tempo ricorrendo al populismo economico”.
Non dimetichiamoci che quel presidente fu malvisto e osteggiato perché abbandonò il tallone-aureo che favoriva speculazioni e ingiustizie, ha creato un sistema di sicurezza sociale per ridurre la povertà, ha tassato fortemente gli alti redditi, ha posto regole molto esigenti per le attività bancarie.
Il populismo economico, ammette in sostanza Rodrik, può portare al disastro perché tende a distruggere anche le regole nazionali e internazionali, limitando i margini di manovra eccessivi del potere politico. “Ma quando queste regole falliscono nel proteggere i più deboli, quando concedono un potere eccessivo agli interessi privati (come avviene con la politica fiscale) riscriverle come ha fatto Roosevelt, può essere giustificato. Fatto entro un quadro democratico, può evitare l’emergenza di un potere autoritario”.
Ciò che qui interessa di Dani Rodrik e può aiutarci a dare consistenza alla nostra azione politica è che, per riscrivere le regole, stando alle sue dimostrazioni sui fatti, bisognerebbe superare “tre precetti “incarnatisi nella politica degli ultimi trent’anni. Il primo pretende che un aumento dell’imposizione del capitale in un paese fa inevitabilmente fuggire i ricchi altrove. Il secondo, che frenare o controllare i movimenti di capitale nuoce meccanicamente all’investimento. Il terzo, che il protezionismo porta sempre alla catastrofe. Può anche darsi che ci sia del vero in questi argomenti, ammette Rodrik, “ma avendoli ascoltati e adottati troppo, i governi degli ultimi decenni sono passati a lato dei cambiamenti che oggi fragilizzano le nostre società, dando vita ai movimenti che oggi dovrebbero preoccuparci”. C’è quindi anche, nelle sue analisi, il necessario azzeramento di quei due dogmi. Con una conclusione semplice, fondata su dati di fatto, che dovrebbe dare sostanza a un impegno politico.
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