Eurosong: le vite dei Palestinesi non contano nulla?

di Arwa Mahdawi

 

L’Eurosong è sempre stato un esercizio di cattivo gusto, ma l’edizione di quest’anno arriva a nuove vette. Chi volesse gustarsi il chiccioso concorso musicale che avrà luogo dal 12 al 14 maggio a Tel Aviv, in Israele, dovrà ignorare il violento contesto politico che lo circonda.

Al riguardo, le autorità israeliane sono così fermamente intenzionate a tenere la politica fuori dall’Eurosong che hanno deciso di impedire l’accesso nel paese a chiunque potesse a loro dire disturbare l’evento.

 

Una delle cose più frustranti dell’essere Palestinese (io stessa sono per metà Palestinese) è che non sembra esserci un modo accettabile di difendere la propria umanità o di protestare contro l’oppressione della quale si è vittime. Gli appelli al boicottaggio dell’Eurosong, per esempio, sono stati denunciati come divisivi. Il mese scorso, delle celebrità come Stephen Fry, Sharon Osbourne e Marina Abramovic hanno firmato una lettera nella quale si afferma che lo “spirito di solidarietà” dell’Eurosong è “sotto attacco da parte di coloro che invitano a boicottare [la competizione] perché avrà luogo in Israele, sovvertendo così lo spirito del concorso e trasformandolo da uno strumento di solidarietà ad un arma di divisione”.

 

Date un’occhiata alle parole scelte. Una forma pacifica di protesta viene descritta come un “attacco” e un’“arma”. I Palestinesi e i loro sostenitori vengono dipinti come degli aggressori violenti e irragionevoli. Al contempo, il contesto più ampio viene bellamente ignorato. Il fatto che la maggior parte dei Palestinesi, anche quelli che vivono a pochi chilometri da Tel Aviv, non abbiano alcuna possibilità di assistere all’Eurosong a causa delle severe restrizioni imposte alla loro libertà di movimento viene bellamente ignorato.Il fatto che ci sia un’intera infrastruttura studiata appositamente per separare i Palestinesi dagli Israeliani – da un muro di cemento che separa il confine ad un complesso di strade segregate – è semplicemente passato sotto silenzio.

 

Se non si è mai stati in Palestina, è difficile comprendere la violenza quotidiana dell’occupazione. È difficile capacitarsi del fatto che qualcuno come mio padre, che è nato in Cisgiordania, non abbia alcun diritto di ritornarvi. È difficile immaginare cosa voglia dire vedere le proprie case e la propria storia demoliti e ridotti ad un cumulo di macerie. È difficile capire l’umiliazione implicata dal passaggio dai checkpoint israeliani per andare a visitare un parente nel villaggio confinante. È difficile immaginare cosa voglia dire sentire ripetere che non si esiste.

 

I Palestinesi non disumanizzati solo nella vita, sono disumanizzati anche nella morte. Basta guardare per esempio al modo in cui certe testate giornalistiche hanno coperto le recenti violenze a Gaza. Stando al Washington Post del 6 maggio, “quattro civili israeliani sono stati uccisi … e 23 Palestinesi sono morti”. CNN a sua volta ha riferito che 23 persone “sono morte a Gaza” mentre “in Israele quattro persone sono state uccise”. Le vite dei Palestinesi non contano. I media americani lo esplicitano ogni volta che parlano di morti palestinesi, descritte regolarmente con dei verbi passivi che le presentano come degli incidenti casuali. È curioso come i Palestinesi continuino ad incrociare dei proiettili; non si capisce chi ne sia responsabile, davvero…

 

Anzi, dimenticate quest’ultima affermazione. I Palestinesi sono sempre colpevoli di tutto, secondo certe agenzie di stampa. La violenza israeliana, ci viene continuamente ripetuto, è semplicemente auto-difesa. “Militanti di Gaza sparano 250 razzi, e Israele risponde con raid aerei”, proclamava questa domenica il New York Times. Questa onnipresente narrativa vorrebbe farvi credere che Gaza fosse pacifica prima che Hamas cominciasse a lanciare razzi. Quello che non viene menzionato è che l’esercito israeliano ha sparato su dozzine di manifestanti palestinesi disarmati il venerdì precedente, prima che qualunque razzo venisse lanciato; due di questi manifestanti, di cui uno di soli 19 anni, hanno perso la vita.

 

Le morti palestinesi come quelle di venerdì scorso non ottengono molta copertura perché le violenze nella regione sembrano importare solo quando muoiono degli Israeliani. Il Washington Post e il New York Times ne hanno dato loro stessi la prova quando, lunedì, hanno affermato che le recenti violenze sono state “lo scontro più letale dalla guerra del 2014”. Il 14 maggio dell’anno scorso, durante delle proteste scoppiate a seguito dell’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme, più di 50 Palestinesi a Gaza sono stati uccisi e oltre 2'400 sono stati feriti. Per i Palestinesi gli ultimi giorni non sono quindi stati, secondo nessuno criterio, i “combattimenti più letali” dal 2014.

 

A Gaza, sotto blocco israeliano da 12 anni, la vita è insostenibile. La disoccupazione è sopra il 50%; non c’è quasi più elettricità; meno del 4% dell’acqua è potabile. È praticamente impossibile entrare o uscire: la striscia è una prigione a cielo aperto. La situazione drammatica in cui versa Gaza viene attribuita al popolo che ha eletto un governo estremista incarnato da Hamas, ma persino l’esercito israeliano ha ammesso che Israele deve migliorare le condizioni di vita nella striscia di Gaza se vuole evitare ulteriori violenze.

 

È difficile immaginare cosa significhi sentirsi dire che non c’è alcun modo legittimo di protestare contro questo trattamento. La resistenza violenta ovviamente non è un’opzione. Ma apparentemente lo stesso vale per le forme non-violente di resistenza, come il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), che gli Stati Uniti stanno cercando di rendere illegale. L’unica cosa accettabile che un Palestinese possa fare, sembrerebbe, è di stare zitto e morire. E per amor di Dio, non protestate contro l’Eurosong!

 

 

 

 

Fonte: The Guardian, 8 maggio 2019.