"Se le donne vogliono, tutto si ferma"

di Manuela Cattaneo e Sabrina Riccio

 

Un compito arduo quello di essere riconosciute soggetti interi, è quasi come se fossimo composte di tante parti, di cui pochi conoscono i segreti, i dolori, le difficoltà. Ma tutti hanno qualcosa da dire al posto nostro. Sempre.

 

C’era una fotografia che girava poco dopo l’elezione di Donald Trump, ed era una di quelle immagini rappresentative, che hanno la capacità di descrivere una realtà più di mille parole e davanti alle quali credi che finalmente tutti capiranno. E invece no, la mancanza d’incisività di cui si parlava prima è disarmante, ha la caratteristica quasi desolante, disperante di quando tutti vedono, ma nessuno dà importanza al messaggio, chiaro, inequivocabile che sta nell’immagine. C’era Trump in questa foto, e attorno a lui un buon numero di suoi ministri o funzionari, tutti rigorosamente maschi. E la foto suggellava la firma di un decreto che bloccava i fondi alle associazioni di sostegno per le donne che volevano abortire. E la domanda sorgeva talmente spontanea, tanto che i social media si erano sbizzarriti; quando un consesso politico di sole donne avrebbe preso decisioni sul corpo degli uomini al posto loro? E se ne sarebbe fatto vanto? Mai.

 

Un esempio di mancanza di reazione, che ci riporta dritte a una considerazione sullo sciopero delle donne previsto il 14 giugno prossimo, e sulla qualità di vita delle donne. Chi scrive, come tante altre donne, corre durante tutto il giorno. Ma non è una corsa che ha fine, è una gara infinita per prevedere, pensare, risolvere, occuparsi in modo molteplice di migliaia di piccoli elementi che formano una vita, e non solo la nostra. Sono quei pensieri e quelle azioni (che sicuramente le donne che ci leggono riconoscono con un sorriso) cui siamo chiamate senza che abbiano un valore riconosciuto.

 

Ma neppure il nostro lavoro nella società è riconosciuto. Dall’ultima analisi delle disuguaglianze salariali in Svizzera risulta che la discriminazione verso le donne è aumentata e non sarà la recente revisione della legge sull’uguaglianza a mettere freno a quest’evoluzione negativa. Tutti vedono l’ingiustizia, nessuno agisce, nessuno ha una reazione o un’azione attiva sulla realtà dei fatti. Quando invece potrebbe essere così semplice. E così noi donne abbiamo, e pare avremo sempre una differenza da colmare, una sottrazione da vivere, una lotta quotidiana da far riconoscere.

 

 

Incrociare le braccia, nella buona tradizione degli scioperi, equivale a voler mostrare, rendere esplicito e riconoscibile il plusvalore del proprio essere, non solo del lavoro, ma anche del proprio posto nel mondo. “Se le donne vogliono, tutto si ferma”, lo slogan del 1991 ci viene in aiuto. Forse fermando anche solo per un giorno la velocità presa da tempi immemorabili da questa società maschile, nelle sue forme e nel suo linguaggio, produrremo un cambiamento simbolico e culturale per la cittadinanza intera. E ci faremo vedere, un’altra volta spingeremo verso il riconoscimento delle ingiustizie che viviamo, quotidianamente.

 

Non vogliamo essere assimilate, bensì viste e valorizzate. Siamo soggetti interi, abbiamo conoscenze e competenze che si sono alimentate nei secoli e che ci permettono di reggere il mondo sulle spalle, senza nessuna paura. Non siamo fragili. Siamo intere. Abbiamo linguaggi ed esperienze che arricchiscono e li vogliamo condividere. E così scioperiamo. E così rivendichiamo la fine dell’inerzia e del torpore, del ‘vedo ma non capisco’, rivendichiamo necessario e vitale il sentimento di incredulità, indignazione e di turbamento di fronte a evidenti atti di ingiustizia verso le donne. Non si può più prescindere dall’altra metà del cielo.

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