L’AGENTE DI POLIZIA OGGI E LA DIGNITÀ DEL MESTIERE

di Graziano Pestoni

 

La recente modifica della legge sulla polizia del Cantone Ticino è il risultato di una politica che, tra la prevenzione e la repressione, dà la priorità a quest’ultima. È un passo importante, a mio giudizio, nella direzione sbagliata.

Essa, tra altre norme discutibili, ha introdotto la custodia di polizia. Si tratta, si legge nel messaggio governativo, «di una privazione della libertà, a titolo temporaneo. La persona può essere ammanettata. E può essere trattenuta per 24 ore». Questa modifica è in contrasto con le garanzie procedurali della Carta europea dei diritti dell’uomo. Essa, come indicato nel rapporto di minoranza, redatto da Carlo Lepori, tratta i giovani come delinquenti, non considera le eventuali cause del disagio e non prevede nessuna collaborazione con i servizi sociali e le strutture sociosanitarie. Magistrati e avvocati hanno espresso perplessità e opposizioni. Senza successo.

 

La maggioranza del Parlamento, il 10 dicembre 2018, approvò la legge. Un brutto giorno. Per i cittadini. Ma anche per i funzionari di polizia che saranno obbligati ad applicare una legge inutile, confusa e liberticida, che susciterà critiche e incomprensioni.

 

 

Anche nel secondo dopoguerra e fino agli anni Settanta, la polizia cantonale accordava una scarsa importanza alla prevenzione. Questa situazione non era gradita da molti agenti. «Siamo lavoratori come gli altri», affermavano con forza e convinzione, per esempio, i poliziotti sindacalizzati. L’autorità politica considerava il poliziotto un funzionario speciale, ubidiente e acritico. Un po’ come i militari. La legge che reggeva il funzionamento della polizia, dai giuristi e dai magistrati progressisti, era ritenuta desueta, ottocentesca. Queste normative erano penalizzanti per il funzionario di polizia e, contemporaneamente, preoccupanti per il cittadino, poiché confrontato con agenti obbligati ad ubbidire ciecamente agli ordini dei loro superiori. I responsabili della polizia ritenevano perfino che i poliziotti non avrebbero dovuto aderire ai sindacati. Per i poliziotti del Cantone Ticino, aderenti al Sindacato svizzeri dei servizi pubblici (SSP/VPOD), questa situazione era inaccettabile. Con l’aiuto di giuristi e magistrati elaborarono un nuovo progetto di legge inteso a democratizzare e smilitarizzare la polizia. Malgrado l’opposizione di Mauro Dell’Ambrogio, il comandante della polizia, che avrebbe voluto una legge ancora più verticistica e repressiva rispetto a quella in vigore, la proposta sindacale venne accolta ed entrò in vigore il 1. gennaio 1990.

 

La subordinazione del Corpo di polizia all’autorità politica e, soprattutto, a quella giudiziaria era formalmente garantita. L’organizzazione in forma militare scomparve. L’agente che interroga un imputato, che appioppa una multa, che compie una perquisizione o un arresto non era più considerato un soldato, che esegue ordini senza responsabilità e senso critico. È invece un dipendente statale, investito di una pubblica funzione, che esegue degli ordini in modo consapevole, critico e responsabile. Grazie a questi lavori e alla sensibilità degli agenti di polizia, il Cantone Ticino ebbe la fortuna di disporre di un corpo di polizia efficace e nel contempo democratico e rispettoso dei cittadini. Erano, come si può immaginare, modifiche storiche.

 

La polizia era diventata un servizio pubblico, democratico, al servizio della popolazione. Il mestiere del poliziotto, allora, aveva una dignità. O, almeno, sembrava averne una. Le belle storie, a volte, non durano a lungo. Negli anni Novanta abbiamo assistito alla svolta liberista. Essa non poteva non avere effetti anche sulla polizia. Nel cantone Ticino, ad esempio, il nuovo comandante Romano Piazzini scrisse: «Anche la polizia deve pensare al cliente (…), tutti ci aspettiamo di essere trattati come clienti». Era un modo assurdo di vedere il corpo di polizia, in netto contrasto con qualsiasi principio che abbiamo ricordato in precedenza. I funzionari di polizia chiesero le dimissioni del comandante. Invano. Anche in altri cantoni la situazione si è deteriorata. Il quotidiano romando «Le Temps», il 30 novembre 2018, consacrava una pagina intera al corpo di polizia del Canton Ginevra. Sotto il titolo Policier, pourquoi le métier est mal-aimé, rilevava che la polizia è accusata di molti abusi, eccesso di zelo, spedizioni punitive, mancanza di rispetto dei cittadini.

 

Perfino Amnesty International ha preso posizione, rilevando la scarsa formazione dei poliziotti. Gli aspetti relazionali, fondamentali per i rapporti con i cittadini, occupano il 13% della formazione. L’uso della forza e la repressione l’87%. «Le Monde diplomatique» del febbraio scorso rileva che nei confronti dei gilets jaunes viene applicata una dura repressione, attraverso anche l’utilizzazione di munizioni esplosive che possono mutilare e ferire, anche mortalmente. Si tratta di materiale di guerra, molto pericoloso. Quelli che i manifestanti ritengono, non senza ragione, gli abusi della polizia provocano rabbia, sentimenti di ingiustizia nei confronti dello Stato e della polizia.

 

Ma anche i poliziotti figurano tra le vittime. Aumentano la demotivazione, i timori, la disperazione. Molti, addirittura, i suicidi. Tutte queste scelte sono in contrasto con i principi di uno Stato democratico. Sono all’origine della perdita di senso del lavoro. E sono in contrasto con la dignità del mestiere.